Confessioni di Minato Kanae: vendetta, colpa, crudeltà
- Elisa Lucchesi
- 23 mag
- Tempo di lettura: 4 min

Mal d’Asia. Mezzo blocco del lettore. Voglia di qualcosa di disturbante.
Volevo tensione sottopelle, velenosa, giapponese.
Confessioni di Minato Kanae è esattamente questo: un libro silenzioso e inquietante, capace di ribaltare ogni schema classico del genere e lasciare addosso un disagio che si fa via via più denso, pagina dopo pagina.
Non è un giallo alla vecchia maniera, non ci sono investigatori geniali né misteri da svelare. Il crimine è noto fin dall’inizio, così come i responsabili. I carnefici hanno un volto e un’età – appena tredici anni – e il movente è solo il punto di partenza.
Minato Kanae, con chirurgica lucidità, costruisce un impianto narrativo che prende il via da un racconto breve e si dilata in sei confessioni, cinque voci che, una dopo l’altra, riformulano i fatti come in un gioco di specchi deformanti.
Cinque punti di vista – tre adolescenti e due madri – tutti inaffidabili, ognuno con la sua verità parziale, ognuno convinto che il proprio racconto possa giustificare l’ingiustificabile.
L’inizio del romanzo è fulminante: Yuko Moriguchi, insegnante di scuola media, annuncia alla classe che lascerà l’insegnamento. Lo fa con una freddezza glaciale, raccontando che la figlia di quattro anni, ufficialmente annegata in piscina, è stata in realtà uccisa da due suoi alunni, presenti in aula. E no, non li denuncerà alla polizia. Ha in mente qualcosa di molto più raffinato, crudele e personale: la vendetta. Da lì, la narrazione si sposta – letteralmente – nelle menti degli altri protagonisti. Ogni nuovo punto di vista rimescola le carte, sposta l’attenzione, rivelando una nuova tessera di un mosaico sempre più disturbante.
Nessuno è innocente, nemmeno chi sembra passivo. Tutti, in un modo o nell’altro, sono complici.
Minato non scrive semplicemente un giallo: scrive un romanzo nero sull’educazione, sulla società giapponese, sul concetto di colpa e su quanto sia labile il confine tra giustizia e vendetta. Lo fa con una prosa essenziale ma tagliente, e una struttura a incastro che funziona come un meccanismo a orologeria. Ogni dettaglio ha un peso. Ogni voce aggiunge profondità psicologica, rivelando come i modelli genitoriali, le aspettative sociali e la solitudine possano scolpire – e distorcere – l’identità di un adolescente.
Credo che per ogni criminale, persino per quelli più spietati e crudeli, sia necessario un processo. Ed è necessario non tanto per il criminale di turno, quanto piuttosto per noi persone normali, al fine di ridurre il rischio di spingerci ad agire d'impulso e incorrere in gravi errori.
Temi come la giustizia privata, la funzione (o disfunzione) educativa della famiglia, l’ossessione genitoriale, la pressione scolastica e la fragilità mentale dei giovani vengono esplorati con una lucidità clinica.
Vivendo in una società, noi tutti abbiamo bisogno di appartenere a qualcosa, a un gruppo, e di avere delle qualifiche e un ruolo specifico, perché questo è l'unico modo per sentirsi tranquilli. Non appartenere ad alcun gruppo e non avere un ruolo equivale a non essere un membro della società, in altre parole a non esistere.
La madre di Nao, è un personaggio che incarna perfettamente la figura del genitore onnipresente e invadente, incapace di vedere il figlio per ciò che è e accecata da un’idea tossica di successo e controllo. Ma anche Shuya, l’altro assassino, è il prodotto di un sistema che premia l’intelligenza ma ignora l’empatia, un ragazzo brillante e disturbato che vuole solo essere notato, riconosciuto, esistere.
Mia madre è sempre stata il mio unico e solo punto di riferimento, in quanto non mi è ancora capitato di conoscere qualcuno più in gamba di lei. In altre parole, nessuna delle persone che mi stanno intorno - a parte mia madre, è ovvio - è per me preziosa al punto che la sua morte mi provocherebbe un trauma insuperabile. E questo vale, mi dispiace dirlo, anche per mio padre. [...]. Non che lo detesti, per carità, ma non credo che la sua esistenza su questo pianeta sia particolarmente significativa.
Il ritmo della narrazione non è frenetico, ma l’angoscia cresce progressivamente.
L’autrice dosa con attenzione i colpi di scena, mantenendo alta la tensione fino a un finale crudele e spiazzante, tanto quanto il brillante incipit.
Un cerchio che si chiude lasciando il lettore con più domande che risposte.
Chi è davvero il colpevole? Chi ha fatto cosa? E, soprattutto, chi ha il diritto di giudicare?
Confessioni è un romanzo che mette a disagio. Scomodo e inquietante, ma allo stesso tempo costruito con una precisione notevole, non lascia scampo né ai suoi personaggi né a chi lo legge. Una lettura che, pur conoscendo l’identità degli assassini fin dall’inizio, riesce a tenere incollati alle pagine come solo le migliori storie sanno fare.
A chi consiglio Confessioni?
A chi ama le storie che scavano nella psiche, nei traumi, nella colpa.
A chi non ha paura di leggere qualcosa che disturba, che fa male, ma in modo lucido, chirurgico, quasi elegante.
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Atmosphere è una casa editrice straordinaria, e ha fatto una scelta che adoro: dedicare un’intera collana, Asiasphere, alla letteratura asiatica. E per questo le sono profondamente grata.
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