Jhumpa Lahiri e l’arte dell’ambientazione: leggere bene per scrivere meglio
- Elisa Lucchesi

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Perché leggere L’interprete dei malanni: la grazia narrativa di Jhumpa Lahiri
Ci sono autori che raccontano grandi eventi e altri che raccontano grandi verità attraverso eventi minuscoli.
Jhumpa Lahiri fa brillare l’ordinario, nel prendere un blackout, un pranzo improvvisato, un taxi rumoroso, un oggetto dimenticato dai precedenti inquilini e farne lente d’ingrandimento dell’anima.
L’interprete dei malanni, la raccolta che l’ha resa un caso letterario, vibra tutta su questo filo sottile: la nostra vita quotidiana che, se la guardi da vicino, è un continente di desideri, fratture, smarrimenti, nostalgie. E Lahiri lo sa osservare.
Le sue storie sono popolate da famiglie in viaggio, coppie che attraversano momenti sospesi, vicini che si sfiorano nella routine quotidiana, immigrati che cercano un equilibrio possibile tra ieri e domani. Situazioni semplici, all’apparenza; ma la scrittura le investe di una gravità silenziosa, di una dignità capace di farci riconoscere le nostre stesse fragilità.
Lo spaesamento, l’identità in bilico, l’appartenenza, la nostalgia, la comunicazione che si inceppa proprio quando servirebbe di più. Temi universali, ma resi in modo concreto e diretto, incarnati in persone comuni che cercano semplicemente un posto in cui stare, un modo di capire se stessi e gli altri.
È qui che Lahiri diventa una maestra silenziosa dell’ambientazione.
Le sue scene non sono mai semplici fondali: sono superfici emotive, rispondono, risuonano, prendono parte alla scena.
Un appartamento americano che profuma di curry e nostalgia non dice solo dove siamo, ma da dove veniamo. Una strada indiana, dove la polvere e la modernità si confondono, racconta il conflitto tra tradizione e trasformazione meglio di tanti dialoghi. Una cucina piena di utensili, odori e gesti ripetuti mette in luce la storia intima di una famiglia: le sue stanchezze, le sue omissioni, i suoi rituali di sopravvivenza.
Modulo 3: l’arte dell’ambientazione narrativa
È anche per questo che L’interprete dei malanni è diventato uno dei cardini del mio Laboratorio di Scrittura sul Racconto: Dai grandi autori alla tua voce, un percorso pratico, fatto di esempi, esercizi e analisi dei grandi autori, pensato per aiutarti a capire come funzionano davvero i racconti e come far funzionare i tuoi.
Nel Modulo 3, dedicato all’ambientazione (Lo spazio che parla: ambientazioni e atmosfere narrative), ci addentriamo proprio nel modo in cui Lahiri fa vivere i luoghi, e lo facciamo attraverso uno dei racconti più intensi della raccolta: Boori Ma.
Già l’incipit è un piccolo manuale di come si possa intrecciare corpo e ambiente in un unico gesto narrativo:
“Boori Ma, spazzina del palazzo, non dorme da due notti. La terza mattina scuote per bene i suoi teli, prima sotto le cassette delle lettere, dove ha dormito, poi all’imbocco del vicolo; i corvi che becchettano le bucce di verdura scappano in tutte le direzioni. Per affrontare le quattro rampe di scale fino al tetto, tiene una mano sul ginocchio che le fa male quando arriva la stagione delle piogge. Le resta un braccio solo per reggere tutto — secchio, teli e un fascio di cannucce, la sua scopa. Boori Ma ha l’impressione che le scale diventino sempre più ripide; risalendo i gradini le sembra di arrampicarsi su una scala a pioli.”
In poche righe è già chiaro che qui l’ambiente è un’estensione della protagonista, non un semplice scenario.
Il vicolo, le cassette delle lettere, i corvi che scappano, le scale che si fanno più ripide di anno in anno, il tetto come unico punto di respiro: tutto partecipa al suo corpo stanco, alla sua memoria incerta, alla sua precarietà.
Boori Ma abita gli interstizi: dorme sotto la posta, stende i teli sul tetto, presidia un cancello che non le appartiene, sempre a metà tra dentro e fuori.
È il luogo stesso a raccontare chi è, quasi sapesse più di lei quale sia il suo posto nel mondo.
Nel corso lavoriamo proprio su questo: capire come un ambiente possa rivelare più di qualsiasi discorso interiore; come possa diventare ritmo, voce, tensione.
Molti scrittori pensano che ambientare un racconto significhi “descrivere dove siamo”.
In realtà, il punto è un altro: rendere quel luogo necessario, insostituibile, capace di parlare.
Nel modulo lavoriamo su tre idee che, da sole, possono rivoluzionare una pagina:
che il paesaggio non è mai oggettivo, ma passa attraverso lo sguardo di chi lo vive;
che un ambiente non è uno sfondo, ma la matrice che genera tono, verosimiglianza, perfino i conflitti;
che bastano pochi dettagli sensoriali per creare un mondo credibile, purché siano quelli giusti.
Quando si capisce questo, succede qualcosa: la famosa finestra da cui un personaggio guarda fuori non è più un “panorama”, ma una dichiarazione emotiva; una stanza non è più “grande” o “piccola”, ma compassionevole, ostile, nostalgica; un vicolo diventa un destino.
Nel laboratorio vediamo come si fa in pratica: come scegliere il luogo giusto per una storia, come renderlo credibile senza appesantire, come farlo dialogare con i personaggi, come usare i sensi, come evitare il generico e costruire atmosfere che rimangono.
Non c’è teoria astratta: c’è un metodo, e c’è la possibilità di capire davvero perché certe descrizioni funzionano e altre no.
Capire come funziona l’intreccio tra spazio e personaggio, e come si può replicarlo nelle proprie storie, è il cuore del Modulo 3.
Un assaggio dalle dispense: quando lo spazio rivela i personaggi
Per dare un’idea concreta di come lavoro dentro il corso, ho deciso di lasciare qui anche un approfondimento gratuito.
All’inizio non era nemmeno previsto: l’ho trovato per caso, mentre cercavo tutt’altro, e mi è sembrato così utile che ho deciso di inserirlo nel modulo sull’ambientazione
L’approfondimento è dedicato alle quattro tracce che i personaggi lasciano nello spazio.
Proviene dagli studi di Samuel Gosling e, applicato alla narrativa, è una meraviglia: perché un personaggio non è solo ciò che dice o pensa, ma anche ciò che lascia dietro di sé.
Gli oggetti che tiene per ricordarsi chi è, quelli che espone per farsi vedere in un certo modo, le tracce involontarie delle sue abitudini, i segni delle attività che porta a casa dal mondo esterno. Basta guardarli da vicino per scoprire identità, conflitti, desideri.
Ho deciso di rendere pubblico questo approfondimento proprio per mostrare come sono fatte le mie dispense e com’è strutturato il laboratorio.
E, soprattutto, voglio far capire una cosa: il corso si espande nel tempo.
Non è un percorso fisso, sempre uguale a sé stesso: quando incontro materiali interessanti, una tecnica nuova, un’analisi illuminante, un approccio che apre prospettive, li aggiungo.
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Stay tuned: altre sorprese stanno arrivando. :)



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