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Abitare il romanzo: tre modi di vivere l’ambientazione

  • Immagine del redattore: Elisa Lucchesi
    Elisa Lucchesi
  • 7 giorni fa
  • Tempo di lettura: 9 min

L’ambientazione, nei romanzi, non è mai semplice scenario.

Può essere essenziale e asciutta, sensoriale e avvolgente, oppure diventare un vero e proprio personaggio.

È il luogo che accoglie e respinge i protagonisti, che plasma le loro azioni e li costringe a misurarsi con i suoi limiti.


ambientazione editing articolo


In questo articolo guarderemo a tre esempi diversi:



Steinbeck e il minimalismo descrittivo


uomini e topi ambientazione
Uomini e topi, John Steinbeck - Bompiani, 138 pp.

In Uomini e topi Steinbeck dimostra come poche parole possano bastare per costruire un mondo intero. Le sue descrizioni all’inizio dei capitoli sono essenziali e funzionali: fissano le coordinate spazio-temporali, delineano lo scenario come uno sfondo teatrale. È una scrittura fatta di dettagli selezionati con cura.


Ecco come introduce il dormitorio dei braccianti:

«La baracca dei lavoranti era una costruzione lunga e rettangolare. All’interno le pareti erano imbiancate e il pavimento grezzo. A tre delle pareti c’erano finestrette quadrate e alla quarta una solida porta dal paletto di legno. Contro le pareti c’erano otto cuccette, di cui cinque rifatte con la coperta e le altre tre che mostravano il pagliericcio di sacco. Su ogni cuccetta era inchiodata una cassetta da frutta con l’apertura verso l’interno della stanza, cosicché ne risultavano due scaffali per gli oggetti personali di chi occupava la cuccetta. Questi scaffali erano carichi di minuti articoli, sapone e borotalco, rasoi e di quelle riviste dell’Ovest che i ranceri amano leggere per farsene beffe, ma cui prestano fede in segreto. E c’erano medicine su quegli scaffali, e fialette e pettini; e dai chiodi ai lati della cassetta pendevano cravatte. Contro una delle pareti stava una nera stufa di ghisa, col tubo che saliva dritto a traverso la volta. Nel centro della stanza c’era un grosso tavolo quadrato, cosparso di carte da gioco, e tutt’intorno, raccolte, cassette da sedercisi i giocatori.»

Le cuccette allineate, i pagliericci di sacco e le cassette della frutta riciclate come mensole raccontano la condizione dei braccianti molto più di qualunque spiegazione sociologica.

Non serve il commento dell’autore: quegli oggetti parlano da soli, restituiscono con la loro nuda presenza un mondo di precarietà, di adattamento continuo, di vite costrette a reinventare l’essenziale.

Nelle cassette inchiodate alle pareti non c’è solo l’ingegno del povero, ma anche la prova materiale di un’esistenza priva di radici, in cui ogni spazio deve essere reso funzionale, provvisorio e insieme personale.


Allo stesso modo, le carte sparse sul tavolo suggeriscono senza dirlo un bisogno di evasione, di comunità effimera, di pausa dal peso del lavoro e dell’incertezza. Non è un dettaglio ornamentale, ma un indizio di come i personaggi cerchino, pur nella durezza della loro esistenza, una forma minima di svago e di condivisione.


È in questo equilibrio che risiede la forza dello stile di Steinbeck: un minimalismo che concentra e amplifica.

Ogni dettaglio, scelto con cura, funziona come un condensato narrativo: pochi oggetti descritti bastano a illuminare un’intera condizione sociale, a trasmettere insieme miseria e dignità, fatica e desiderio di fuga.


Shantaram: abitare con i cinque sensi


shantaram ambientazione sensoriale
Shantaram, Gregory David Roberts - Neri Pozza, 1184 pp.

Se Steinbeck riduce lo spazio all’essenza, Gregory David Roberts lo dilata fino a renderlo esperienza fisica.

In Shantaram, l’ambientazione non solo si osserva, ma si respira, si tocca, si attraversa.

Il lettore la percepisce insieme al protagonista, senza distanza.

Quando Lin giunge nello slum di Cuffe Parade, la prima percezione è quella del contrasto: lo spazio si presenta come un doppio opposto, eppure inscindibile, quasi complemetare di questa realtà contraddittoria: il moderno e il misero, l’aria condizionata dei negozi e il tanfo della latrina a cielo aperto

Ci fermammo quaranta minuti dopo ai margini dello slum di Cuffe Parade, di fianco al World Trade Centre. Le due aree avevano quasi la stessa estensione, e il contrasto era quanto mai stridente. Sulla destra, guardando dalla strada, si stagliava il World Trade Centre, un edificio enorme, moderno, con l'aria condizionata. Tre piani di negozi e vetrine zeppe di gioielli, sete, tappeti e sfarzosi pezzi d'artigianato. Sulla sinistra c'era lo slum, quattro ettari di miseria dov'erano ammassate settemila minuscole catapecchie che davano riparo a venticinquemila poveri, fra i più derelitti della città. Sulla destra luci al neon e fontane illuminate. Sulla sinistra niente elettricità, niente acqua corrente, niente bagni, e nessuna certezza che quel caos non venisse spazzato via da un giorno all'altro dalle stesse autorità che lo tolleravano con riluttanza.

Nel passo seguente, invece, l'ambientazione viene proprio vissuta sulla pelle, respirata, subita fisicamente. Non siamo di fronte a una scena che il lettore guarda dall’esterno, ma a un’esperienza sensoriale totalizzante.

Il fetore diventa quasi materia, una sostanza che si posa sul corpo, un nemico invisibile da cui difendersi. L’autore non si limita a “dire” che lo slum è un luogo invivibile: lo trasforma in una presenza aggressiva che invade e sovrasta.


Il dettaglio che rende ancora più incisiva la scena è lo sguardo di Prabaker. Il sorriso, che di solito incarna il suo ottimismo contagioso, qui si incrina, lasciando intravedere un velo di cinismo. È come se, di fronte alla reazione di Lin, la realtà non potesse più essere addolcita. «Vedi come vive la gente»: non c’è commento, non c’è giudizio, solo un constatare amaro e ineludibile.

Lo spazio, in questo caso, non è un semplice sfondo: è rivelazione sociale, esperienza morale, incontro con una verità che non può essere ignorata.

Il tanfo era nauseante e quasi insopportabile. Era come un elemento fisico che permeava l'aria, ed ebbi la sensazione che si depositasse sulla pelle come uno strato di fanghiglia untuosa. Trattenni i conati di vomito e guardai Prabaker. Il suo abituale sorriso era spento, e per la prima volta mi parve di scorgervi un pizzico di cinismo. «Vedi Lin», disse con il sorriso atipico che gli curvava verso il basso gli angoli della bocca. «Vedi come vive la gente».

In questo passaggio di Shantaram lo spazio prende vita attraverso la presenza e il movimento delle persone.

Mentre camminavo negli angusti vicoli di stracci e plastica dello slum, si sparse la voce che stava arrivando lo straniero. Fummo circondati da una schiera di bambini che ci stava accanto senza sfiorarci [...] La gente usciva dalle catapecchie e si fermava davanti alla soglia. Decine, e alla fine centinaia di persone si ammassarono nelle viuzze laterali e nei rari varchi fra una baracca e l'altra.
  1. «angusti vicoli di stracci e plastica dello slum»

    La materia stessa di cui è fatto lo spazio è precarietà: stracci e plastica sostituiscono mattoni e cemento, rivelando un’architettura provvisoria, costruita con ciò che si ha a disposizione. L’aggettivo angusti amplifica la sensazione di oppressione: i vicoli non sono solo stretti fisicamente, ma chiudono anche psicologicamente chi li attraversa.

  2. «La gente usciva dalle catapecchie»

    Le abitazioni non restano vuote né anonime: diventano prolungamento dei corpi che le abitano.

    Lo spazio si popola, prende voce e volto. Le catapecchie non sono solo baracche malconce, ma luoghi abitati che si aprono all’esterno quando qualcosa, o qualcuno, rompe la routine quotidiana.

  3. «nelle viuzze laterali e nei rari varchi fra una baracca e l'altra»

    Qui l’attenzione torna alla geografia dello slum, ma filtrata dalla presenza umana: i varchi, per quanto minimi, diventano spazi di aggregazione, luoghi in cui il corpo collettivo della comunità si raccoglie. È un’architettura viva, che si misura in funzione delle persone che la occupano.


Insieme, queste immagini costruiscono un’ambientazione dinamica: lo slum è un organismo pulsante, che reagisce, che si organizza intorno all’arrivo dello straniero. L’ambiente prende vita “tra la gente” perché sono i corpi, i movimenti, gli sguardi a trasformare i vicoli e le baracche in scena narrativa.


L’ingresso nella nuova baracca rappresenta il culmine di questo processo di integrazione nello slum. Roberts mostra lo spazio come esperienza concreta e sensoriale, da abitare con il corpo:

La baracca non era diversa dalle altre. [...] Il pavimento era di nuda terra, pressata e levigata dai piedi di chi aveva occupato la capanna prima di me. La porta era un sottile pezzo di compensato appeso a dei lacci. Il soffitto di plastica era così basso che dovevo stare piegato in avanti: la stanza era lunga quattro passi e larga due. Quasi esattamente le dimensioni di una cella. Appoggiai la chitarra in un angolo, tolsi la scatola del pronto soccorso dallo zaino e la sistemai nell'angolo opposto. Avevo un paio di appendiabiti di fil di ferro, e li stavo usando per agganciare al soffitto i miei pochi vestiti, quando udii Prabaker che mi chiamava dall'esterno.

Qui la fisicità del personaggio diventa centrale.

Ogni movimento di Lin, piegarsi per entrare, collocare oggetti, appendere vestiti, è un modo di misurarsi con lo spazio.

Non è un dettaglio decorativo: la fisicità dei gesti rende il personaggio tangibile e credibile, e al tempo stesso ci restituisce lo spazio in tutta la sua concretezza.

Un personaggio che vive in comunione con l’ambiente rivela al lettore non solo sé stesso, ma anche il mondo circostante.

Ogni gesto, poggiare la chitarra, sistemare la cassetta del pronto soccorso, appendere i vestiti al soffitto di plastica, diventa un atto di appropriazione.

La percezione dello spazio e la fisicità del personaggio si intrecciano, restituendo al lettore un’idea di mondo che è al contempo materiale, emotiva e morale.


Philadelphia: una città-personaggio


i cieli di philadelphia liz moor ambientazione come personaggio
I cieli di Philadelphia, Liz Moore - NN Editore, 464 pp.

Ci sono libri in cui la città non fa solo da sfondo, ma prende parola.

Ne I Cieli di Philadelphia di Liz Moore, Philadelphia diventa corpo vivo, a tratti familiare e a tratti ostile, una presenza che accompagna la vicenda con la stessa intensità di un protagonista.


La signora Mahon, ad esempio, non racconta soltanto sé stessa: è la città che parla con la sua voce.

«Sa» continua la signora Mahon «non sono più infermiera, ma faccio ancora la volontaria al St. Joseph. [...] Cullo i bambini».
«Come?».

«I bambini nati da madri tossicodipendenti. In questa città ci sono sempre più neonati che nascono da madri che non hanno mai smesso di drogarsi. E che poi non vengono a trovarli. Le madri e i padri, voglio dire. Tornano sulla strada non appena il bambino nasce. Oppure in certi casi non possono nemmeno venirli a vedere. Così i bambini vanno in crisi di astinenza e hanno bisogno di essere cullati. Questo attenua il dolore».

Non è solo la storia di una donna: è Philadelphia che si racconta attraverso le sue comparse, con la voce di chi resta a prendersi cura degli scarti umani che la città produce.


Poi il romanzo ci spinge dentro Kensington, un quartiere che porta scritta addosso la propria biografia.

«Luglio è spesso brutale a Philadelphia e la casa cuoceva sotto il tetto spalmato di catrame nero, trattenendo tutto il calore. Dentro, puzzava di sigarette e qualcosa di più dolce. (…) Un uomo che andava al lavoro tutte le mattine in uno di quei colossali edifici di mattoni, ormai abbandonati, che ancora costeggiano le strade di Kensington».

Il caldo, l’odore, gli edifici di mattoni: la materia stessa del quartiere diventa memoria, traccia fisica di un passato industriale che non c’è più.


Poi c’è Kensington. Non un quartiere qualsiasi, ma la memoria stessa della città:

Kensington è uno dei quartieri più recenti di quella che, per gli standard americani, è l’antica Philadelphia. [...] A metà Ottocento iniziò una lunga carriera di centro manifatturiero e negli anni di maggior splendore produceva con orgoglio ferro, acciaio, fibre tessili e farmaci. Però quando, un secolo dopo, le fabbriche di questo paese morirono a migliaia, anche Kensington cominciò prima un lento, e poi un rapido declino economico. Molti abitanti si trasferirono ancora più fuori dal centro alla ricerca di lavoro; altri rimasero, per fedeltà o illudendosi che sarebbe arrivato un cambiamento. Oggi Kensington è composto in parti praticamente uguali dagli irlandesi-americani [...] e da una popolazione più recente di famiglie portoricane e latine, insieme a gruppi afroamericani, asiatici e caraibici.

 L’ex centro manifatturiero non è solo decaduto, ma trasformato in organismo instabile, dove convivono memoria industriale e sopravvivenza quotidiana.

Oggi Kensington è solcato da due arterie principali: Front Street e Kensington Avenue, in genere chiamata “l’Avenue” (appellativo che può essere amichevole ma anche sprezzante, a seconda di chi lo pronuncia). [...] La ferrovia è sorretta da enormi pilastri d’acciaio, zampe azzurre poste ogni dieci metri, che le danno l’aspetto di un millepiedi gigantesco e minaccioso sospeso sul quartiere. Quasi tutte le transazioni (droga e sesso) che si svolgono a Kensington iniziano su una di queste due strade e finiscono in una delle case o dei lotti abbandonati che affollano i vicoli e le strade secondarie del quartiere. [...] Circa un terzo delle vetrine è sbarrato.

La città, insomma, diventa un legame. Kensington non è solo il quartiere dei lotti vuoti e della droga, non è nemmeno solo il simbolo di un declino industriale:

Quando ho tentato di protestare ha continuato: «Avresti smesso di uscire di pattuglia anni fa, [...]. Avresti fatto l’esame per diventare detective». Io gli ho spiegato che in realtà non è vero; che mi sono semplicemente affezionata al quartiere e che tengo molto alla sua tranquillità, e penso abbia una storia interessante e mi piace guardarlo crescere e cambiare. E poi non mi annoio mai. Al contrario, lo trovo stimolante. Certe persone hanno dei problemi con Kensington, ma per me è diventato come una persona di famiglia, leggermente problematica ma cara, una persona a cui si tiene, a cui si attribuisce un valore. In altre parole, ci ho investito.

È qui che I cieli di Philadelphia trova la sua chiave più intima: la città smette di essere un semplice scenario degradato e diventa un legame affettivo, quasi una parentela.

Kensington non è più solo un quartiere difficile, ma una presenza con cui fare i conti, un “parente problematico” che non si può abbandonare.

Un pezzo di sé coincide ormai con il suo corpo urbano, e forse è proprio in questo investimento – personale, emotivo, quotidiano – che la scrittura trova la sua verità più profonda.


Vuoi altra ispirazione? Altri romanzi che giocano con i sensi?


Ecco qualche altra idea, ne parlo brevemente QUI.

Uno di questi viene anche trattato in modo più prolisso QUI sul blog.

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