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Tre libri che esplorano psiche e identità

  • Immagine del redattore: Elisa Lucchesi
    Elisa Lucchesi
  • 14 mar
  • Tempo di lettura: 7 min
libri salute mentale

Forse le storie che parlano di mente e psiche ci affascinano proprio perché ci ricordano quanto sia complesso e misterioso il nostro mondo interiore. Per quanto proviamo a studiarla, a definirla, la mente umana rimane un territorio in parte inesplorato, dove ogni esperienza diventa una narrazione unica e irripetibile.

La salute mentale è una dimensione fatta di sfumature e contraddizioni, e le storie di chi affronta il proprio labirinto interiore ci offrono uno sguardo prezioso sulle infinite possibilità dell’essere umano.


Oggi vi parlo di tre libri, tratti da storie vere che scavano nei recessi più oscuri della psiche.

Una stanza piena di gente racconta l'incredibile vicenda di Billy Milligan, un uomo con ventiquattro personalità che si contendono il controllo del suo corpo, mettendo in discussione il confine tra colpa e malattia.

In Hidden Valley Road, la schizofrenia devasta una famiglia, ma la sua tragica storia diventa anche una chiave per comprendere il legame tra genetica e psiche.

Infine, Stranieri a noi stessi di Rachel Aviv ci porta nelle vite di chi, intrappolato nelle proprie diagnosi, perde il contatto con la propria identità e il proprio corpo, costringendoci a riflettere su quanto la psichiatria possa definire o distruggere.



Una stanza piena di gente, Daniel Keyes

daniel keyes una stanza piena di gente
Una stanza piena di gente, Daniel Keyes - Editrice Nord, 544 pp.

Billy Milligan è un uomo, ma dentro di lui vivono molte persone.

Una stanza piena di gente racconta la sua incredibile e inquietante storia, il caso reale che ha sconvolto la psichiatria e la giustizia americana.

Arrestato per rapina e stupro alla fine degli anni '70, Billy viene sottoposto a una perizia psichiatrica che svela qualcosa di sconvolgente: dentro di lui convivono ben ventiquattro personalità diverse. Da Ragen, il serbo aggressivo e violento, ad Arthur, l’intellettuale britannico con una precisione chirurgica nel ragionamento; da Tommy, l’esperto di elettronica e fuga, fino a Christine, una bambina dolce e spaventata che ama disegnare fiori e farfalle.

Tutte queste identità si contendono il controllo del corpo di Billy, spesso senza che lui ne sia consapevole. Il libro segue il suo lungo percorso tra ospedali psichiatrici, processi e tentativi di comprendere la sua condizione, mentre la società si interroga su un dilemma: Billy Milligan è un criminale o una vittima?


Daniel Keyes, con il suo stile attento, immersivo e sensibile, ci porta dentro la mente frammentata di Billy, dove ogni voce lotta per essere ascoltata. Il disturbo dissociativo dell’identità non riesce a conciliarsi con un sistema giudiziario impreparato ad affrontare la complessità della psiche umana e di una società più incline a etichettare che a comprendere.

Billy è un essere umano intrappolato in una guerra interiore che non ha scelto di combattere.

Il lettore si trova di fronte a un dilemma morale continuo: se il crimine è stato commesso da una personalità che Billy non controllava, chi deve pagare? Possiamo davvero dire che la giustizia ha gli strumenti per affrontare casi come il suo?

Ciò che rende il libro un’esperienza unica è la sua capacità di avvicinarci a questa lotta invisibile. Sentiamo la paura di Christine, la rabbia di Ragen, la disperazione di Billy, che non riesce a trovare un posto nel mondo, neppure dentro di sé.

Leggere Una stanza piena di gente è come entrare in un labirinto senza uscita, dove ogni svolta rivela una nuova voce, un nuovo volto, un nuovo frammento di un’anima spezzata. È una storia da leggere lentamente e metabolizzare, un’esperienza che si insinua nella mente e lascia domande scomode, quelle che continuano a riecheggiare anche dopo l’ultima pagina.


Fun fact!: Billy Milligan decise di affidare la sua storia a Daniel Keyes dopo aver letto Fiori per Algernon in carcere. Si identificò con il protagonista Charlie Gordon, che viveva drastici cambiamenti nella sua coscienza, proprio come le sue personalità. Questa connessione lo convinse che Keyes fosse la persona giusta per raccontare la complessità della sua mente.


Ci troviamo in una stanza buia. In mezzo a questa stanza, sul pavimento, c’è una chiazza di luce. Chiunque faccia un passo dentro la luce esce sul posto, ed è fuori nel mondo reale, e possiede la coscienza. Questa è la persona che gli altri – quelli fuori – vedono e sentono e a cui reagiscono. Gli altri possono continuare a fare le solite cose, studiare, dormire, parlare o giocare. Ma chi è fuori, chiunque sia, deve fare molta attenzione a non rivelare l’esistenza degli altri. È un segreto di famiglia.

 

Hidden Valley Road, Robert Kolker

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Hidden Valley Road, Robert Kolker - Feltrinelli, 448 pp.

Negli anni ’40, Don e Mimi Galvin sembravano incarnare il sogno americano: una grande casa in Colorado Springs, dieci figli maschi e, infine, due femmine a coronare la famiglia perfetta. Ma dietro la facciata ordinata si nascondeva un dramma inimmaginabile: sei dei dieci figli maschi avrebbero sviluppato la schizofrenia, trasformando la casa dei Galvin in un campo di battaglia dominato da episodi di violenza, psicosi e disperazione.

Donald, il primo a manifestare la malattia, fu etichettato come un caso isolato, finché anche i fratelli Jim, Brian, Joseph, Matthew e Peter iniziarono a mostrare gli stessi sintomi. Allucinazioni, paranoia, scatti d’ira e tentativi di suicidio divennero la quotidianità della famiglia.

Nel frattempo, i figli sani — come Michael e le due sorelle minori, Lindsay e Margaret — lottavano per non essere schiacciati dal caos.

La storia dei Galvin oltre a essere una vera e propria tragedia familiare, è anche il caso che ha rivoluzionato gli studi sulla schizofrenia. Grazie alla disponibilità della famiglia a sottoporsi a test genetici, i ricercatori hanno trovato indizi fondamentali sul ruolo dei fattori ereditari nella malattia, contribuendo a decifrare il legame tra genetica e ambiente in un disturbo ancora avvolto nel mistero.


Hidden Valley Road è un libro che travolge e scombussola: Robert Kolker intreccia la drammaticità della storia che racconta con l’indagine scientifica proponendoci il ritratto di una famiglia sull’orlo del collasso e il riflesso di una scienza che per anni ha brancolato nel buio, cercando di decifrare uno dei più grandi enigmi della psichiatria: la schizofrenia.

Kolker ci porta dentro la casa dei Galvin con una scrittura precisa e schietta. Viviamo la disperazione di Donald, il tormento autodistruttivo di Brian, la lucidità intermittente di Joseph e la fragilità di Peter, tutti risucchiati da un vortice di sintomi che la scienza non sapeva ancora spiegare. Il libro ci fa sentire la frustrazione di Mimi, una madre che si è aggrappata disperatamente all’idea che l’amore e la disciplina potessero bastare, mentre i figli sani venivano ignorati, condannati a crescere in una casa che era ormai un teatro del dolore.

Kolker racconta come, per decenni, la malattia sia stata attribuita all’ambiente e all’educazione — spesso colpevolizzando le madri — prima che gli studi sui Galvin dimostrassero il peso della genetica. I capitoli dedicati alla ricerca sono dettagliati e illuminanti, rendendo accessibile una tematica complessa senza mai appesantire la lettura.

Hidden Valley Road attraverso la storia di una famiglia distrutta dalla schizofrenia, ci offre uno spaccato sugli studi miranti alla comprensione della malattia. È un libro che colpisce nel profondo, che ci mostra quanto poco sappiamo ancora della mente umana e su quanto dolore possa nascondersi dietro le pareti di una casa apparentemente normale.

Siamo più dei nostri stessi geni. In qualche modo, siamo un prodotto delle persone che ci circondano, le persone con cui siamo costretti a crescere e quelle con cui scegliamo di passare la vita. I rapporti che abbiamo possono distruggerci, ma possono anche cambiarci, o guarirci. E, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, ci definiscono. Siamo umani perchè le persone che abbiamo attorno ci rendono tali.

Stranieri a noi stessi, Rachel Aviv

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Stranieri a noi stessi, Rachel Aviv - Iperborea, 288 pp.

In Stranieri a noi stessi, Rachel Aviv esplora il confine tra identità e malattia mentale attraverso le storie di individui la cui esistenza è stata ridefinita da una diagnosi psichiatrica.

Da Hava, una giovane anoressica che sembra dissolversi nella sua malattia, a Bapu, donna indiana convinta di essere un'incarnazione divina, fino a Naomi e Laura, le cui vite dimostrano come la psichiatria possa essere influenzata da razzismo, pregiudizi culturali e abuso di farmaci. Aviv stessa riflette sulla propria esperienza con l'anoressia infantile, interrogandosi su quanto la psichiatria aiuti o limiti la comprensione del sé.


Stranieri a noi stessi è un libro forte. Rachel Aviv smonta le certezze con cui la psichiatria cerca di incasellare la sofferenza umana. Ogni protagonista di queste pagine ci mostra una verità scomoda: spesso la malattia non è solo una questione di chimica cerebrale, ma il risultato di un’interazione complessa tra cultura, società e identità.

La storia di Hava, che apre e chiude il libro, è una ferita aperta: una giovane che sembra esistere solo nella sua anoressia, incapace di trovare un posto nel mondo al di fuori di essa. La stessa Aviv, con la sua esperienza infantile, si chiede quanto il semplice atto di ricevere una diagnosi abbia contribuito a darle un'identità che forse non le apparteneva del tutto.

Bapu nasce in India con una malformazione fisica che la rende vulnerabile agli sguardi e alle crudeltà altrui. Data in sposa a un uomo che non la rispetta, vive un’esistenza di sofferenza e umiliazione finché non trova rifugio nella dimensione divina, convincendosi di essere un’incarnazione sacra. In un mondo che l’ha sempre emarginata, la sua spiritualità diventa l’unico spazio in cui può esistere con dignità.

Ma quando la sua famiglia decide di farla ricoverare, il suo destino si scontra con una psichiatria modellata su paradigmi occidentali. La schizofrenia, così come la medicina la definisce, è un concetto nato in un contesto culturale specifico: può essere applicato nello stesso modo a una donna cresciuta in un sistema di valori completamente diverso?

Naomi è la testimonianza del pregiudizio che per decenni ha portato a ignorare il dolore psicologico delle persone nere, come se la loro resistenza alla sofferenza fosse un dato di fatto e non un'ingiustizia storica.

Laura, infine, è forse il ritratto più spietato: il passaggio da bambina geniale a donna intrappolata nel suo bipolarismo, inghiottita dai farmaci e dalle definizioni cliniche mostra come la psichiatria, pur con le migliori intenzioni, possa finire per intrappolare invece che liberare.


Aviv trasforma la scienza in qualcosa di profondamente umano. Stranieri a noi stessi è un'indagine sulla fragilità dell’identità, sulla difficoltà di abitare il proprio corpo e sulla sottile linea che separa il disagio dalla normalità. È un viaggio nelle zone d’ombra della mente, dove la domanda più angosciante non è “si può guarire?”, ma piuttosto “chi siamo, quando non ci riconosciamo più?”


Riusciva a elencare i fattori che avevano contribuito all'emergere della sua malattia, ma non sapeva come muoversi da lì in poi. Malgrado la conoscenza approfondita del suo malessere, sentiva di non conoscere ancora se stessa. "Credo di essere una di quelle persone che si capisce alla perfezione da sola, eppure sono straniera a me stessa".

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