R. F. Kuang, Yellowface: il lato oscuro dell’editoria tra invidia e appropriazione
- Elisa Lucchesi
- 16 set
- Tempo di lettura: 6 min
C’è un momento preciso in cui chi scrive capisce che non basta l’amore per le storie, né il talento, né la dedizione. A un certo punto ti accorgi che il mondo editoriale funziona secondo logiche che non controlli, che i tuoi colleghi sono anche i tuoi concorrenti, che ogni successo altrui ti mette davanti allo specchio della tua inadeguatezza.
C’è un libro che più di altri, negli ultimi anni, ha saputo scavare sotto la superficie dorata del mondo letterario e mostrare cosa c’è davvero dietro: ambizioni, invidie, rancori, lotte per la visibilità. Quel libro è Yellowface di Rebecca F. Kuang.
Un romanzo che parte da un presupposto da thriller editoriale, un manoscritto rubato, una carriera costruita su una menzogna, e si allarga a una riflessione feroce sul razzismo, sul mercato editoriale e sul desiderio, quasi ossessivo, di lasciare traccia.
La protagonista è June Hayward, scrittrice bianca, mediamente talentuosa, che ha avuto un assaggio di successo ma è rimasta tagliata fuori dai grandi riflettori.
La sua amica-rivale Athena Liu, invece, giovane, brillante, di origini cinesi, sembra avere tutto: contratti milionari, premi, fama.
Quando Athena muore improvvisamente in un incidente assurdo, June si ritrova fra le mani il suo ultimo manoscritto. E decide di appropriarsene.
Basta qualche modifica, una strategia comunicativa ben studiata, e la storia inizia a funzionare: il libro diventa un caso editoriale, la carriera decolla.
Ma tutto il romanzo è costruito sulla tensione fra ciò che June finge di essere e ciò che realmente è: una voce bianca che si appropria di un racconto non suo, convinta che basti “interpretare” un’altra cultura per farsene portavoce.

L’invidia come motore
Uno dei meriti più grandi del romanzo sta nell’aver reso tangibile un sentimento che attraversa silenziosamente il mondo della scrittura: l’invidia.
«L’invidia viene sempre descritta come un livore tagliente e velenoso. Un’acredine infondata e meschina. Ma ho scoperto che per gli scrittori l’invidia assomiglia di più alla paura. L’invidia è quell’impennata del battito cardiaco tutte le volte che leggo dei successi di Athena su Twitter: l’ennesimo contratto per un libro, le candidature ai premi, le edizioni speciali, gli accordi per la vendita dei diritti all’estero. L’invidia è ciò che provo quando mi paragono a lei e ne esco costantemente sconfitta»
L’invidia, in questa narrazione, non è un sentimento meschino da reprimere, ma la cifra stessa di un mestiere in cui i successi degli altri sono continuamente sotto gli occhi di tutti.
E online diventano amplificati, impossibili da ignorare.
L’editoria come mercato truccato
Se c’è un altro grande bersaglio del romanzo, è il sistema editoriale stesso.
«Perché nessuno ti dice fin da subito quanto è importante il tuo libro per l’editore? (…) Ora, invece, capisco che gli sforzi di un autore non c’entrano nulla con il successo di un libro. I bestseller vengono scelti e basta. Non importa quello che fai. Devi solo goderti i vantaggi annessi»
La retorica del “se ti impegni ce la fai” si infrange contro la realtà: le carriere non sono solo talento o dedizione, ma frutto di decisioni prese altrove, in riunioni a porte chiuse, in logiche di mercato spesso imperscrutabili.
«Sono impaziente, vorrei saperne di più, ma le cose stanno così. L’editoria si muove a passo di lumaca. Chi deve vagliare i manoscritti impiega dei mesi, le riunioni si svolgono a porte chiuse mentre tu aspetti fuori e ti struggi nell’attesa. In questo settore non hai notizie per settimane, poi mentre sei in fila da Starbucks o alla fermata dell’autobus, sul cellulare arriva la notifica dell’e-mail che ti cambierà la vita».
Il romanzo, in questo senso, diventa quasi un manuale di sopravvivenza emotiva all’interno di un’industria lenta, opaca, eppure capace di determinare in un istante la vita di chi scrive.
La scrittura come furto e come magia
La Kuang mette a nudo la natura predatoria della scrittura.
«Ma per favore. Ho sempre pensato che quella frase fosse una comoda scappatoia. Non c’è bisogno di girarci tanto intorno. Siamo tutti avvoltoi e alcuni di noi – e qui mi riferisco ad Athena – sono semplicemente più bravi a trovare in una storia i bocconi più succosi, a spolpare l’osso fino a raggiungere il cuore morbido e sanguinante, per poi metterne in mostra tutto l’orrore»
Eppure, accanto a questa visione crudele, resta intatta l’idea della scrittura come magia, come creazione pura:
«Scrivere è quanto ci sia di più prossimo alla magia. Scrivere è creare qualcosa dal nulla, aprire porte verso altri luoghi. Scrivere ti dà il potere di crearti un mondo tutto tuo quando quello vero ti fa soffrire troppo. (…) Scrivere costituisce l’essenza della mia identità fin da quando ero bambina».
Il romanzo vive di questa ambivalenza: da un lato il cinismo dell’industria, dall’altro la sacralità personale del gesto creativo.
La vita online come arena crudele
I social network poi vengono descritti come croce e delizia di ogni autore contemporaneo:
«Avete tutti bisogno di uscire, si era lamentato una volta su Twitter uno scrittore importante. Andate a prendere una boccata d’aria. Twitter non è la vita reale. Ma Twitter è la vita reale; è più reale della vita stessa, perché è il regno su cui poggia l’economia sociale dell’editoria (…) Offline gli scrittori sono creature senza volto che macinano parole in isolamento. Online puoi sintonizzarti su tutti i pettegolezzi più scottanti, anche se conti meno di niente. (…) In editoria le reputazioni vengono costruite e distrutte in continuazione, online»
In poche righe Kuang condensa una verità che chiunque frequenti il mondo letterario digitale conosce bene: la scrittura non è più solo testo, ma presenza, performance, reputazione da mantenere o da difendere, in uno spazio dove le gerarchie possono cambiare in un istante.
Razzismo e appropriazione culturale
Emerge anche come l’industria editoriale tratta gli autori non bianchi.
Kuang mostra un sistema che incasella, riduce, decide quali storie sono “accettabili” e vendibili:
«L’avevano etichettata come la loro giovane asiatica per eccellenza, un simbolo di esotismo. Ogni volta che provava a proporre progetti che si discostavano da questa strada, le dicevano che l’“asiaticità” era il suo marchio, ciò che il pubblico si aspettava da lei. [...] Il trauma razziale vende bene, giusto? L’hanno trattata come un pezzo da museo».
«Sai cosa si prova quando vuoi proporre un libro e ti dicono che hanno già uno scrittore asiatico a contratto? Che non possono far uscire due storie di minoranze etniche nella stessa stagione? [...] Questo settore viene costruito tappandoci la bocca, schiacciandoci a terra e lanciando soldi a quei bianchi che producono stereotipi razzisti su di noi».
Queste pagine sono tra le più feroci del romanzo: smascherano un sistema che prima marginalizza e poi monetizza, che celebra la “diversità” solo quando fa comodo, trasformando il trauma in merce e riducendo le identità a marchi di fabbrica.
Adoro l’operazione di Kuang, che da autrice cinese decide di impersonare una protagonista bianca, arrivista, convinta di potersi erigere a portavoce di un mondo che in realtà disprezza.
È una satira che funziona perché costringe il lettore a misurarsi con il disagio di una voce inaffidabile, ipocrita, eppure stranamente comprensibile.
E poi c’è il cibo. Questa scene sono cruciali perché mostrano il razzismo di June nella sua forma più quotidiana e banale: il disgusto.
«Uso le pinze di plastica per servirmi un involtino primavera vegetariano, dato che è l’unica cosa che non trasuda olio, ma la nonnina al mio fianco insiste per farmi provare il pollo kung pao e i noodles al sesamo, e lascio che mi riempia il piatto di roba mentre io trattengo i conati di vomito»
«Apre un contenitore con del riso e me lo piazza davanti. “Ti piace il cinese, vero?” Non me la sento di dirle che è Rory quella che ama il cibo cinese, e che invece a me fa venire il voltastomaco»
Ridurre la cucina a qualcosa di “sporco” e “ripugnante” significa rifiutare la cultura che rappresenta. La satira di Kuang diventa allora più pungente che mai: la protagonista che si appropria di una storia di dolore collettivo non riesce nemmeno a condividere un pasto con quella stessa comunità.
Perché la cucina, in Cina, non è solo nutrimento, ma tradizione, memoria, cultura condivisa. Ridurla a nausea significa rifiutare quella cultura stessa.
È qui che il personaggio diventa davvero insopportabile, e la satira di Kuang risulta più pungente.
La paura dell’oblio
Forse però il nucleo più toccante di Yellowface non sta né nella critica all’editoria né nel racconto del razzismo, ma nel desiderio ossessivo di June: essere ricordata.
«Uno scrittore ha bisogno di essere letto. Voglio entrare nel cuore delle persone e commuoverle. Voglio che i miei libri si vendano nei negozi di tutto il mondo. (…) Voglio che il mondo aspetti con il fiato sospeso quello che ho da dire. Voglio che le mie parole durino per sempre. Voglio essere eterna, immortale; quando non ci sarò più, voglio lasciare una montagna di pagine che gridano: “Qui è vissuta Juniper Song, e con queste parole ci ha raccontato chi era”»
È un desiderio che chi scrive conosce bene: sopravvivere attraverso le parole, lasciare una traccia che non scompaia.
Ed è anche il motivo per cui Yellowface risuona così tanto: perché, al di là della trama, parla della paura più umana di tutte, quella dell’oblio.
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