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Atti di sottomissione e la seduzione del dolore femminile

  • Immagine del redattore: Elisa Lucchesi
    Elisa Lucchesi
  • 26 set
  • Tempo di lettura: 6 min

C’è un filo rosso che attraversa gran parte della letteratura scritta e letta negli ultimi due secoli: il dolore delle donne come linguaggio universale.

Non è un caso che una delle immagini più iconiche della narrativa ottocentesca sia il corpo di Anna Karenina sui binari, sacrificata sull’altare dell’amore impossibile e del giudizio sociale.

Da allora, e con modalità sempre nuove, la letteratura sembra tornare a interrogarsi su quanto il dolore femminile sia non solo materia narrativa, ma anche prodotto culturale da esibire, consumare, discutere.


Megan Nolan, con Atti di sottomissione, non racconta la tragedia epica di una donna oppressa dalla società: racconta la banalità feroce di una giovane donna che consuma se stessa in una relazione tossica, convinta che il dolore sia l’unica forma possibile di verità.

Ed è proprio questa dimensione, intima, ossessiva, contraddittoria, che rende questo potente esordio, un caso letterario e culturale.

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Meg Nolan, Atti di sottomissione - NN Editore, 304 pp.

Il romanzo


Non si parla di amore romantico, ma della dissezione di un legame che dell’amore conserva soltanto la forma esteriore.

Non c’è costruzione, non c’è alleanza, non c’è reciprocità.

Ci sono atti, di desiderio, di abbandono, di sottomissione, di violenza, che si ripetono e che scandiscono il ritmo della narrazione.

“Ero davvero felice quando sembravo felice. Sono incapace di mentire sui miei sentimenti, è solo che i sentimenti non hanno alcuna coerenza, non rimangono costanti da un’ora all’altra.”

Sono l'intermittenza e l'imprevedibilità del dolore a occupare la scena.

La felicità è solo un lampo che si spegne subito, e la sofferenza, d'altra parte, un movimento oscillante, sempre in agguato.

Il romanzo restituisce questa precarietà emotiva con spietata fedeltà: la fatica di esistere in un continuo altalenare tra esaltazione e disfatta.


A questo si aggiunge un elemento che spiazza: la consapevolezza del privilegio.

La narratrice è amaramente consapevole della sua fortuna:

“Avevo la sensazione che ci fossero persone fortunate e persone sfortunate, e io ero una persona fortunata. Anche nei momenti di peggior depressione, l’avevo sempre saputo. La mia tristezza sembrava derivare dalla consapevolezza di non essere brava abbastanza da meritare la vita oggettivamente prospera che mi era stata data.”

È l'eccesso a generare sofferenza, l'avere tutto ma non accontentarsi di niente: l’inadeguatezza di fronte a un’esistenza che sembra troppo buona per essere davvero propria.

Il privilegio, lungi dal generare sicurezza, diventa fonte di angoscia: la sensazione di non essere mai abbastanza, di tradire costantemente un potenziale che il mondo esterno sembra promettere e che invece resta irraggiungibile. È un dolore borghese, intimo, che si alimenta dell’impossibilità di coincidere con ciò che si dovrebbe essere.

Qui Nolan tocca un nervo scoperto di una generazione: i millennial, cresciuti nell’abbondanza e istruiti a credere che ogni possibilità fosse a portata di mano, hanno sperimentato soprattutto lo smarrimento.

Avere troppo significa non sapersi orientare; essere fortunati accresce il senso di fallimento.

È il paradosso di un privilegio che, invece di alleggerire, schiaccia.


ll legame con Ciaran, l’uomo che catalizza la narrazione, si costruisce su questa voragine.

“E sapevo che a me non sarebbe mai capitato perché non riuscivo a trascorrere una giornata, figuriamoci interi anni, senza guardarmi intorno in cerca di qualcuno per cui provare qualcosa.”

L’amore diventa dipendenza, ricerca di una conferma che non arriva mai.

La protagonista non esiste senza uno sguardo esterno che la rimandi a sé stessa: una dinamica che Nolan mostra facendo emergere la dipendenza affettiva come una delle forme più diffuse e taciute di sofferenza femminile.


Ogni gesto, ogni confessione rimanda a un orizzonte più ampio:

Scendere a patti col proprio vittimismo fa solo parte dell’essere donna. Usarlo o negarlo, odiarlo o amarlo, e tutte queste cose insieme. Essere una vittima è noioso per chiunque sia coinvolto.”

Qui la narrazione si apre a una consapevolezza culturale: la vittimizzazione come ruolo sociale, interiorizzato e rifiutato allo stesso tempo, in una tensione che nessuna emancipazione riesce a risolvere del tutto.


Il sollievo diventa il vero piacere: la cessazione temporanea della sofferenza.

Così il dolore si trasforma in lavoro, in disciplina quotidiana, in performance sociale:

“Avevo sofferto, avevo trasformato la sofferenza in qualcosa che riuscivo a considerare buono. Avevo fatto in modo che la sofferenza fosse una specie di lavoro.

In questo rovesciamento il dolore diventa in tutto e per tutto un'attività produttiva.

Una forma di impegno costante, un esercizio che consuma energie e che definisce l’identità. Soffrire diventa un compito, un ruolo da assolvere.


La Nolan si sofferma anche su un altro punto, quello dell’idolatria maschile, altrettanto alienante.

“Adesso detesto gli uomini che mi idolatrano a quel modo, quelli che non mi conoscono. […] Odio sentirmi dire chi sono, anche o soprattutto quando trovano che io sia gentile o brillante o bella.”
Le moine sono un atto di codardia, e di violenza. Quando cambi il no di una persona in un sì facendo le moine, le hai rubato qualcosa che non ti appartiene.

L’elogio, se privo di reale conoscenza, si rivela un atto di cancellazione: dietro l’idealizzazione c’è sempre un disprezzo implicito per la realtà della donna, ridotta a immagine da compiacere, a superficie su cui proiettare desideri e aspettative.


Come a dire che anche l’amore, quando si presenta nella forma della venerazione cieca, diventa violenza, rimane una dinamica di potere che annulla.

La donna idealizzata viene resa muta, privata della propria contraddizione, costretta a incarnare un ruolo inaccessibile.

La Nolan mostra come la venerazione, apparentemente opposta alla sottomissione, in realtà produca lo stesso effetto: una perdita radicale di sé.


Il romanzo non offre soluzioni né riscatto.

Non c’è un punto di svolta che ribalti il destino della protagonista, non c’è una rinascita. Quello che resta è la consapevolezza amara dell’atto mancato:

“Non avrei potuto scegliere altri grandi amori invece degli uomini che ho scelto di amare? Certo che avrei potuto, ma non l’ho fatto, e questa, la mia storia, è la storia di questo atto mancato.”

Infatti il romanzo si chiude con una riflessione amara ma aperta: l’amore non può colmare il vuoto, non può sostituire la cura di sé, non può farsi carico del dolore altrui.

“Pensavo che l’amore di un uomo mi avrebbe riempito così tanto che non avrei più avuto bisogno di bere, mangiare, tagliarmi o fare di nuovo qualsiasi altra cosa al mio corpo. Pensavo che se ne sarebbe fatto carico al posto mio.”

E invece resta solo la protagonista, con il suo corpo e i suoi pensieri, davanti a un futuro incerto:

“Ma adesso ero qui, proprio qui dentro, senza nessuno a dirmi cosa sarebbe successo dopo. A cosa avrei pensato adesso che non pensavo all’amore o al sesso? Questo sarebbe stato il prossimo passo, cercare di capire con cosa riempire tutto quello spazio. Ma andava tutto bene. Quella cosa sarebbe arrivata.

È una chiusura sospesa, che lascia intravedere la possibilità di un dopo, ma senza certezze.


Il female suffering come prodotto culturale


Atti di sottomissione è stato letto e discusso come parte di quella costellazione etichettata come sad girl lit: romanzi che raccontano il dolore femminile con crudezza, senza offrire riscatto né redenzione. Ma la forza di Nolan sta proprio nel mostrare che il dolore non è solo un dato biografico: è una performance, un linguaggio, un lavoro.


Il rischio, naturalmente, è che questa estetizzazione diventi un cliché: il dolore come unico linguaggio legittimo per raccontare le donne. È lo stesso meccanismo che, in forme diverse, ha prodotto generazioni di Anna Karenina, di donne che esistono solo attraverso la loro sofferenza.


Eppure il romanzo di Nolan, pur rischiando di cadere nella trappola, conserva una forza disturbante proprio perché non cerca di nobilitare il dolore: lo mostra nella sua banalità, nella sua ripetitività, nella sua funzione quasi burocratica.


La domanda che resta, dopo la lettura, è: è possibile raccontare le donne senza dolore?

Forse sì, ma non ancora. Il mercato editoriale continua a premiare storie di female suffering perché riconoscibili, perché condivisibili, perché redditizie.

Ma romanzi come quello di Nolan aprono anche la strada a un’altra possibilità: quella di nominare il dolore senza trasformarlo in destino, di mostrarne la circolarità senza farne un mito.


E forse il passo successivo, è proprio questo: riempire lo spazio lasciato libero dall’amore tossico con qualcos’altro.


In un panorama letterario saturo di dolore femminile, Atti di sottomissione ci ricorda che raccontarlo è ancora cosa buona e giusta. Ma ci sfida anche a immaginare un dopo.

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