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Flash, Charles Duchaussois: un viaggio senza ritorno tra le ombre della dipendenza

  • Immagine del redattore: Elisa Lucchesi
    Elisa Lucchesi
  • 25 feb
  • Tempo di lettura: 5 min

libro flash nutrimenti
Flash, il grande viaggio, Charles Duchaussois - Nutrimenti, 528 pp.

Flash, in inglese, vuol dire: lampo.

Per un drogato vuol dire: spasmo.

Il flash è quel che succede nel corpo di un drogato quando, spinta dallo stantuffo della siringa, la droga gli entra nelle vene.

Il flash ha la violenza del lampo e l’intensità di uno spasmo amoroso.

A una ragazza un giorno ho dato un po’ di quella polverina viscosa, un po’ gialla, che scivola come a malincuore nel cavo della mano e che si chiama eroina, ‘le cheval’, il cavallo.

La ragazza era in astinenza. [...]

Allora mi sono bucato a mia volta e a mia volta ho raggiunto il flash, ho viaggiato, ero fatto.

La puntura – il buco, la pera, la spada – è l’unica cosa che ti fa sentire il flash.

Ecco perché ogni vero drogato, un giorno o l’altro, finisce fatalmente per bucarsi.

E diventa un tossico.

Un Dio.

O uno straccio.

A scelta.


Flash. Il grande viaggio di Charles Duchaussois non è un semplice racconto di viaggio, ma una lenta e inesorabile discesa verso la dissoluzione. È il diario di una caduta, il resoconto crudo e senza filtri di un’epoca in cui la libertà sembrava coincidere con l’annullamento, in cui l’esperienza estrema diventava un fine in sé.

Non è solo il resoconto di un pellegrinaggio attraverso l’Asia, ma un’immersione totale nel degrado, nella dipendenza e nella dissoluzione dell’identità.


Un viaggio che inizia con l’euforia della scoperta e finisce con il corpo martoriato dall’eroina, la mente distrutta dalle allucinazioni, l’anima svuotata.


Duchaussois racconta tutto senza filtri, senza sconti.

La sua scrittura è diretta, violenta, sporca come le strade che percorre, come le comuni hippie in cui vive, come le stanze in cui si buca.

Il viaggio fisico, dall’Europa fino a Katmandu, segue inesorabilmente il viaggio mentale, che da esperimento diventa incubo. Dapprima c’è la fascinazione per la droga, per l’effetto quasi magico dell’hashish e dell’oppio, che avvolgono il corpo in un torpore piacevole, anestetizzano la realtà e la trasformano in un sogno lento e dolce.


Sin dal giorno del mio arrivo all’Oriental Lodge, mi imbatto in quello che posso chiamare unicamente un mondo in preda alla follia. Una follia che per il momento mi sorprende ancora ma che anche per me presto diventerà l’elemento normale dell’esistenza. Quando uno prova a immaginarsi cosa siano stati quei pochi mesi in cui una colonia di europei drogati si è abbattuta sulla capitale del Nepal prima di essere decimata poco a poco da svalvolamenti, overdosi, epatiti ed espulsioni, non va mai dimenticata una cosa: a Katmandu, ai tempi di cui parlo, la vita non è una vita ordinaria. Le azioni più sbalorditive, le conversazioni più pazzesche, gli eccessi più enormi sono ordinaria amministrazione. Siamo una piccola comunità che vive in un’ebbrezza permanente, quella delle decine di droghe di ogni tipo che fumiamo, mangiamo, sniffiamo, ci distilliamo nelle vene. I nostri rapporti sono regolati da un’elettricità permanente. Mattino, mezzogiorno, pomeriggio, sera, notte, sono parole che non hanno più senso. Il ritmo solare non esiste più. Mangiamo quando abbiamo fame, mai a orari regolari, dormiamo quando la voglia di dormire si fa più forte dell’eccitazione della droga. Il normale non esiste più. L’anormale lo diventa.

Ma presto la morbidezza dell’oppio lascia spazio alla ferocia della morfina e dell’eroina.

Il piacere si trasforma in bisogno, il bisogno in ossessione. Il corpo diventa un involucro fragile e consunto, le vene si infettano, il dolore non è più solo psicologico ma fisico, reale, insopportabile.

L’LSD aggiunge un’altra dimensione al tormento: le visioni sono all’inizio magnifiche, colori esplosi, percezioni amplificate, ma poi si trasformano in incubi ad occhi aperti, in deliri allucinati che mescolano morte e follia.


Le immagini che Duchaussois riporta sono raccapriccianti. Il suo viaggio è costellato di incontri con il marciume umano: uomini ridotti a larve nei bassifondi delle città orientali, corpi scheletrici distesi su letti di legno nelle fumerie d’oppio, tossici con la pelle lacerata, piaghe aperte sulle braccia, aghi sporchi che passano di mano in mano. Nei vicoli delle metropoli asiatiche si aggirano fantasmi, occidentali che un tempo erano viaggiatori e ora sono relitti, anime perse con lo sguardo vitreo, incapaci di reagire, incapaci di scappare.


Nei bagni delle comuni hippie, Duchaussois vede ragazzi svenuti nel loro stesso vomito, corpi senza vita su materassi sfondati, insetti che strisciano tra le lenzuola intrise di sudore e sangue. E poi ci sono le visioni indotte dalla droga, orrori che sembrano usciti dall’inferno: volti che si deformano, mani che si sciolgono come cera, corpi che si dilatano e si spezzano sotto il peso della percezione alterata.

Katmandu, il sogno hippie, è in realtà un cimitero a cielo aperto, un limbo in cui la libertà tanto agognata diventa schiavitù.


Le comuni non sono paradisi di pace e condivisione, ma cloache in cui i giovani si lasciano morire lentamente, persi in un’apatia febbrile, mentre il mondo reale continua a scorrere indifferente intorno a loro. La fame, le malattie, le infezioni sono parte della quotidianità.

Le autorità locali chiudono un occhio o ne approfittano, i medici sono impotenti, il mercato della droga prospera indisturbato. Per alcuni il viaggio finisce in un ospedale, per altri in una fossa anonima.


Duchaussois sopravvive, ma a che prezzo? Quando finalmente riesce a fuggire da quel mondo, il suo corpo è devastato, la mente è consumata. Non è più un uomo, ma un guscio vuoto che ha visto troppo, provato troppo, perso tutto.

Il viaggio che doveva essere una ricerca diventa un annullamento totale. Inseguire la libertà lo ha condotto alla schiavitù più profonda. La droga, che all’inizio era un mezzo per esplorare nuove dimensioni, si è rivelata una trappola che inghiotte senza pietà.

L’eroina non regala nulla senza portare via tutto.


Flash è una testimonianza che non si dimentica. È un viaggio nel cuore della perdizione, una storia di autodistruzione raccontata con lucidità impietosa. Non è un monito morale, ma una verità cruda: certi viaggi non hanno ritorno, certi abissi non permettono risalite. Alla fine, rimane solo un vuoto immenso, un silenzio pesante come una condanna.

"Perché ci si droga?" risponderò senza giri di parole. Perché e bello. Perché vi rende felici, vi permette di sopportare meglio la stanchezza, vi aiuta a vivere, a sopportare i problemi, a vedere meglio la verità delle cose, vi fa indovinare rapporti e associazioni tra le cose che avreste messo anni a trovare da soli o che forse non avreste scoperto mai. Perché, per dirla semplicemente, con chiarezza e precisione, la droga vi rende più intelligenti.

Il primo capitolo è scaricabile dal sito di Nutrimenti, a questo link :)

SULL'AUTORE


Charles Duchaussois nacque nel 1940 e, all’età di soli quattro mesi e otto giorni, perse un occhio a causa di una scheggia di bomba, un segno indelebile della guerra che lo accompagnerà per tutta la vita.

Charles Duchaussois

Il suo nome è indissolubilmente legato a un viaggio straordinario e autodistruttivo che lo portò, tra il 1969 e il 1970, attraverso il Medio Oriente e l’Asia, in un’epoca in cui il sogno hippy stava lentamente svanendo sotto il peso delle droghe pesanti.


Partito quasi per caso dal Libano, si immerse nel traffico d’armi e nella raccolta dell’hashish, attraversando Beirut, Istanbul, Baghdad e proseguendo fino a Katmandu, allora centro del mondo psichedelico ma già contaminato dall’eroina. La sua esperienza, raccontata nel memoir Flash ou le grand voyage, non è solo il resoconto di un viaggio fisico, ma anche il ritratto crudo di un’epoca e un monito sui pericoli delle droghe. Il libro, tradotto in molte lingue, è diventato un'opera di culto per intere generazioni.


Duchaussois morì nel 1991, a soli 51 anni, segnato dagli eccessi della sua giovinezza.

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