La squilibrata di Juliet Escoria, dentro l’abisso della mente
- Elisa Lucchesi

- 2 set
- Tempo di lettura: 4 min

La squilibrata di Juliet Escoria, Pidgin edizioni, è un romanzo che si colloca a metà tra memoir, autofiction e diario clinico, e che racconta senza veli l’adolescenza devastata dal disturbo bipolare, dalle droghe e dall’autolesionismo.
Juliet è una studentessa modello, promessa di un futuro brillante, fino a quando il suo corpo e la sua mente iniziano a tradirla: allucinazioni, insonnia, ansia. La realtà si deforma, diventa minaccia.
"A scuola, durante la lezione di Biologia, le ombre si ammassavano e si incollavano tra loro dando vita a forme. Un’armata di ombre faceva pressione contro il mio petto, infilzando le loro dita nella mia gola. I rumori che facevano non erano umani né demoniaci, ma come di carta che sfrega, qualcosa di ambivalente e freddo. Osservai teschi che eruttavano dalle pareti, feroci in arcobaleni psichedelici. […] Provai a rallentare il mio respiro, immaginandomi come un albero con solidi radici che penetravano nel terreno, ma il caos invece si gonfiò fino a diventare violenza. Sentii del sangue, umido e appiccicoso. Mi scorreva giù per le braccia. Era orribile."
Questa è la cifra del libro: non un racconto “sul” dolore, ma dal dolore, scritto dall’interno, con una precisione lirica e crudele allo stesso tempo. La voce di Juliet oscilla tra confessione e cronaca, tra lirismo e brutalità.
Il romanzo si costruisce alternando la prima persona della protagonista a rapporti clinici, note mediche, frammenti visivi (foto, documenti, biglietti). Questa struttura rompe la linearità e rende palpabile la sensazione di collasso, come se la narrazione stessa rispecchiasse la frattura interiore della protagonista.
La spirale è fatta di droghe, autolesionismo e desideri di scomparsa. Juliet è intrappolata in un labirinto interiore, soffocata da una claustrofobia generata dal suo stesso corpo e dalla sua mente.
“Ero da sola su quel tetto, nessuna persona, solo io, tutto vuoto e nero. Volevo saltare dentro a quel nulla, diventarne parte, dimenticare il mio nome. Non volevo morire. Desideravo essere un vuoto, non una persona”
Ed è qui che affiora un’altra dimensione, altrettanto devastante: quella della famiglia.
Juliet si sgretola, ma insieme a lei crollano anche i suoi genitori, costretti ad assistere impotenti alla figlia che si allontana sempre di più, irraggiungibile.
"Per i miei genitori ero diventata un problema astratto, una perdita da una tubatura o una tosse persistente"
Ma l’imbarazzo impallidiva al confronto del senso di colpa che mi passò sopra quando i miei genitori entrarono nella stanza. Non li avevo mai visti così vecchi o così stanchi. Occhi completamente iniettati di sangue, labbra sottili e grigie. L’espressione sui loro volti non mostrava rabbia o frustrazione e neanche preoccupazione, come avevo immaginato prima di vederli. C’era una sola parola per l’espressione sui loro volti, tre misere sillabe che incapsulavano tutto: Dolore.
Perché certe malattie non si curano né si arginano: al massimo si impara a conviverci.
Non c’è redenzione familiare, non c’è consolazione, solo la constatazione di una frattura che non si ricompone.
Molti memoir cercano di trasformare la sofferenza in un esempio. Questo libro no.
La squilibrata non vuole insegnare né rassicurare: è la fotografia di anni ingestibili, di amicizie tossiche, di strutture e percorsi inadeguati, di persone incapaci di offrire appigli.
Tutto appare insufficiente, fuori misura, come se nulla fosse davvero salvabile.
Eppure la tossicità più feroce non è fuori, ma dentro: nell’io interiore della protagonista, duro, fatale, lucido fino alla crudeltà e inevitabilmente
Il vero cuore del libro non è tanto il “che cosa” accade (la sequenza di overdose, ricoveri, boarding school terapeutici), ma il “come” viene raccontato. Escoria riesce a tradurre la sensazione indicibile di vivere in un corpo-mente ostile.
E stavolta, quando mi svegliai, mi sentii ancora più stupida e in colpa. Stavolta, quando mi svegliai, sentii veramente di avere un cervello rotto. Solo che non era il mio cervello. Era il cervello di una pazza omicida. Stava tentando di ammazzarmi.
La malattia, la dipendenza, il desiderio di sparire non sono qui raccontati come deviazioni o come prove da superare, ma come condizioni quotidiane, senza vie facili di uscita.
È per questo che La squilibrata risulta disturbante: perché non lascia spazio a moralismi né a redenzioni facili. Juliet non è simpatica, non è “esemplare”: è fragile, autodistruttiva, a volte crudele persino con chi la ama. Ma è vera.
A tratti, dentro la brutalità, affiora anche una forma di tenerezza: un’empatia sottile che accompagna Juliet senza giudicarla. Eppure resta un libro difficile, perché mostra, senza filtri, cosa significa convivere con una mente che ti tradisce.
Ma sotto la coperta della medicina mi sentivo ancora triste e vuota. Come un alieno, questo strano intruso che non si inseriva in niente, che non aveva un’essenza o un vero sé.
La squilibrata è, in definitiva, un libro brutale, lirico, disturbante.
Un romanzo che non offre appigli, ma costringe a guardare l’abisso.
Eppure, nel suo modo spietato, riesce anche a restituire un barlume di comprensione: non una salvezza, ma la possibilità di dire, e di leggere, ciò che di solito resta impronunciabile.



Commenti