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Personaggi indimenticabili: Angela Izzo

  • Immagine del redattore: Elisa Lucchesi
    Elisa Lucchesi
  • 25 giu
  • Tempo di lettura: 9 min

Come Antonio Franchini costruisce uno dei personaggi più memorabili di sempre

angela izzo il fuoco che ti porti dentro antonio franchini
Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro - Marsilio, 224 pp.

In Il fuoco che ti porti dentro, Antonio Franchini compie un’operazione narrativa di raro equilibrio: scrive un libro sulla madre senza fare della madre un monumento.

Anzi, la madre che racconta è tutto fuorché materna.

Angela Izzo è una donna detestabile, eppure, proprio per questo, indimenticabile.


Angela Izzo, beneventana di origine, sgherra e discendente dei Sanniti detesta tutto e tutti, compreso il suo nome. Rimugina, rimastica, ribolle di un odio inesauribile: è un vulcano perennemente in procinto di eruttare, un fiume sul punto di straripare e al cedere degli argini, inonda e annienta chiunque intralci il suo passaggio.


È folle, incontrollabile, diffidente e sospettosa, invadente e inopportuna.

L’odio è l’unico sentimento che ha appreso da sua madre ed è l’unico in grado di tramandare.

È un memoir scritto magistralmente, crudo, ma in grado di strappare dei sorrisi amari.


Attraverso una lingua precisa, tagliente, capace di bruciare come una fiamma, Franchini fa emergere un personaggio vivo e violento, estremo, sgradevole e magnetico.

Una donna che, pagina dopo pagina, da figura privata si trasforma in simbolo: incarnazione di una certa Italia rabbiosa, chiusa, carnale e intossicata da sé stessa.


Angela Izzo è un vulcano. E come un vulcano, seduce, esplode, distrugge e, infine, si spegne.


Angela esce dalle pagine, ti entra dentro. E ti disprezza.


  1. L'incipit

“Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza.”

Franchini apre con un ossimoro folgorante: “bella donna / puzza”.


È un attacco frontale al lettore e al mito della madre: da subito ci troviamo davanti a una figura disturbante e spiazzante, incarnazione di una doppiezza inconciliabile.

L’uso di “puzza” è brutale, fisico, anti-letterario. Segna la rottura con qualsiasi rappresentazione idealizzata della maternità.


Introduce Angela come personaggio disturbante, respingente, concreto. E il figlio come narratore lucido e impietoso.


  1. L'odio come tratto distintivo

“Mia madre si chiama Angela e tra le infinite cose che non ama la prima è il suo nome.

Ironia sottile e amara: il nome Angela evoca dolcezza, bontà, angelicità, ma è il primo rifiuto di Angela stessa.

La formula “tra le infinite cose che non ama” introduce l’odio come orizzonte esistenziale: è tanto vasto da essere indefinibile, sconfinato, quasi comico nella sua enormità.


Fin dalla prima menzione, l’identità di Angela si definisce per negazione.

L’odio è il suo modo di posizionarsi nel mondo, e Franchini lo mostra con una microfrase apparentemente leggera, che però scava a fondo nella psicologia del personaggio.


Le donne come mia nonna e mia madre [...] hanno disprezzato l’amore prima di qualunque altro sentimento, la gentilezza più di qualunque altra virtù, le altre donne assai più di qualsiasi maschio.

La struttura triadica (amore, gentilezza, altre donne) ha una forza incalzante e paradossale: si disprezza l’amore, la gentilezza, cioè proprio ciò che normalmente si associa alla femminilità tradizionale.


L’iperbole (“prima di qualunque altro sentimento”, “più di qualsiasi maschio”) rende l’odio totalizzante, gerarchico, sistematico.


Franchini inquadra Angela in una linea matrilineare maledetta, in cui l’odio non è solo individuale ma trasmesso. Non è ribellione: è eredità. È storia familiare.


Angela odia sia per differenza sia per affinità, e per affinità, come è in genere naturale che accada, odia ancora più intensamente.

Franchini costruisce qui una teoria del sentimento dell’odio, come se fosse un dato naturale.

Il tono analitico, quasi saggistico, è in netto contrasto con il contenuto disturbante.

L’anaforaper affinitàsottolinea la ridondanza ossessiva dell’odio: non solo non è risolto, ma è rilanciato.

Mostra che l’odio di Angela non ha logica esterna, solo una logica psichica interna. È sistematico, autonomo. Si autoalimenta.


Non concede mai al vento della sua avversione un rifugio in cui placarsi, ma gli lascia davanti una prateria dove soffiare senza requie: ha bisogno di odiare come di respirare, sente di non esistere se non si contrappone.

Questa frase è un piccolo capolavoro di metafora estesa: l’odio è vento, ma non trova ostacoli. Angela non costruisce argini, anzi: offre paesaggi infiniti al suo stesso disprezzo.

L’immagine della prateria suggerisce l’illimitato, il continuo, l’inesauribile.


Qui l’odio diventa funzione vitale, con la similitudine come di respirare”. Il verbo “ha bisognofa dell’odio un impulso primario, quasi fisiologico.


Resta il fatto che adesso sta chiusa in casa e aspetta la morte e non ha altro con cui distrarsi se non rimuginare il passato, rimasticare, come ha sempre fatto, le scorie della sua esistenza, compitare con monotonia selvaggia quell’inesauribile odio che la nutre da quando è nata.

Questa è una delle frasi più complesse e simboliche del romanzo.

Il verbo “rimasticare”, riferito alle “scorie della sua esistenza”, è una metafora negativa: Angela non digerisce mai, ripassa continuamente il rancore. Le sue memorie sono tossine, non nutrimento.


Compitare con monotonia selvaggia” è un ossimoro: “monotonia” (ripetizione) e “selvaggia” (istintiva, animalesca). Franchini unisce l’ordine del linguaggio all’istinto bruto.

L’odio è feroce ma disciplinato.


L’inesauribile odio” ritorna ancora una volta. Ma ormai è agonia, non più eruzione.

L’odio è diventato liturgia interna, una cantilena stanca che accompagna la vecchiaia.

Chiude il ciclo. Il fuoco non brucia più: scava. Non erutta, ma corrode. Angela è ormai lava pietrificata, che però continua a vibrare in un rancore residuale.


  1. Il vulcano, che prima erutta e poi si spegne

... ma l’evento più normale, quando succede a noi e c’è Angela di mezzo, diventa subito la bocca di un vulcano che erutta guai.

Qui la metafora del vulcano diventa centrale.

Angela non ha reazioni, erutta. Non si limita a esprimere rabbia: è una forza naturale distruttrice.

L'immagine è visiva, potente, dinamica. La quotidianità, anche banale, è sempre a rischio catastrofe.


Nulla pesa più di un gesto d’affetto privo di spontaneità […]. È più facile tenerle la mano e carezzarla, è un pezzo di lava freddo.

Il cuore della frase è la metafora pezzo di lava freddo”: materia che un tempo era fuoco, incandescenza, vita, e ora è pietra, cenere, relitto immobile.

L’ossimoro interno (lava = calore; freddo = morte) crea una tensione potentissima.

Angela, un tempo vulcanica, è diventata materia fredda: il suo corpo non emana più odio, ma neanche accoglie amore.


“Il rancore si è estinto […]. Il tempo ha consumato le fiamme del risentimento o per l’esatto contrario, perché il fuoco che la divora brucia tutto, alla fine, anche l’odio?

Franchini gioca qui su un paradosso narrativo: l’odio è finito perché è stato consumato... dall’odio stesso.

Il tempo non ha guarito, ma ha corroso. Il fuoco non si è spento da solo: ha bruciato tutto.

L'immagine delle “fiamme del risentimento” che si consumano richiama l’idea di autocombustione emotiva.


  1. L'incoerenza, l'ignoranza e la sensualità

Angela è incoerente. [...] È di un’incoerenza più profonda, non motivata dalle convenienze o dalla semplice volubilità, ma dalla volontà di porsi sempre in maniera contraria […] e se non c’è nessuno che si oppone, è lei a contraddirsi, da sola.

Qui Franchini adotta una antifrasi paradossale: l’incoerenza di Angela non è debolezza, ma coerenza alla sua contraddizione. È un principio attivo, un atteggiamento ideologico.

Angela è opposizione incarnata.


Che l’amore tra Eugenio e Angela abbia una forte radice carnale è sicuro. [...] È raro che un pranzo festivo [...] non finisca con lei ubriaca che ancheggia e fa la mossa

Angela è descritta in termini carnali, viscerali. La sensualità qui è ambigua: fatta di dinieghi, cedimenti, civetteria. Una seduzione negata e poi concessa, che rende il desiderio ancora più potente. Il dettaglio “fa la mossaè volutamente volgare, teatrale, inopportuno: restituisce il corpo come spazio d’eccesso e dismisura.

Questa immagine contribuisce a costruire Angela come un corpo sociale disturbante, che rifiuta di conformarsi, che sfida e provoca anche con la sensualità.


Viaggiare non le piace, cambiare abitudini le fa paura. Oltre la porta di casa di là dal suo quartiere Ferrovia a Napoli, c’è un mondo ostile del quale non sa niente, ma è convinta che viaggiare non le serva perché tanto lei conosce già tutto. Non ha mai parlato con uno straniero in vita sua, ma ha opinioni precise su ogni popolo della terra.

L’autore impiega ironia + iperbole per mettere in luce un atteggiamento molto riconoscibile: l’ignoranza che si trasforma in convinzione assoluta.

Angela non ha mai avuto contatti col mondo, ma lo giudica comunque.

È un provincialismo aggressivo, tipico di chi confonde l’opinione con la verità.

Franchini la colloca così in un immaginario sociale collettivo, fatto di arroganza, chiusura e disprezzo. Angela è l’Italia che nega tutto ciò che è “altro”.


  1. Il dialetto caratterizzante

Ripete «Io so’ sgherra!» con una stolida fierezza che nemmeno il tempo è riuscito ad affievolire; anzi, gliel’ha accentuata.”
Ma a pensarci, un’origine da una remota civiltà guerriera ce l’ha e la rivendica tutte le volte che può; discende dai Sanniti: «’O ssaie che ffacettero i Sanniti agli antichi Romani, eh? ’E ffacettero acalà ’a capa!»

L’uso del dialetto è uno strumento preciso di caratterizzazione linguistica e identitaria.

Angela si definisce “sgherra”, brutale, spietata, con orgoglio.

Evoca l’origine sannita come mito di fondazione, elevando sé stessa a discendente di un’antica stirpe guerriera. La comicità grottesca della battuta rafforza ulteriormente l'immagine.

Il dialetto le dà corpo, colore, concretezza. Le sue parole sono azione.


  1. Ritratto per contrasto: il PDV del figlio-narratore

Mi fa schifo chi mi ha messo al mondo.

Con questa frase spiazzante, il figlio non si limita a prendere le distanze: nega il vincolo, rinnega l’origine. Non dice “mia madre”, ma “chi mi ha messo al mondo”, una perifrasi impersonale che de-umanizza la genitrice, come fosse una funzione biologica. Il disgusto è fisico, primitivo, senza mediazioni né indulgenze.


L’odio, sì, mi accende e mi infiamma, ma è un sentimento forte e fin troppo puro […] quando si ritira lascia il posto a qualcosa d’altro [...] È la vergogna, perché da sempre io mi vergogno di mia madre.

Qui Franchini compie un’operazione narrativa complessa: scava nell’emotività, ma non per creare empatia. L’odio è solo la superficie. Sotto c’è la vergogna. L’odio passa, la vergogna resta


Ma io che c’entro con questa donna? Che cosa ho da spartire con queste carni dalle quali sono uscito e dalle quali tutto mi separa?

È una domanda che rifiuta non solo il legame emotivo, ma anche quello biologico.

Il narratore guarda la madre come si guarda un corpo estraneo, un involucro da cui si è originati ma che non ha più nulla da offrire.

La parola “carni” è deliberatamente spregiativa, impersonale, denota una materia senza soggetto, senza affetto. E la frase “tutto mi separa” è definitiva: non resta neppure l’odio a tenerli uniti.


La battuta che Franchini attribuisce ad Angela stessa è grottesca e tragica:

«Io e te nun parimmo mamma e figlio…». Non imputa la nostra distanza ad alterità, a incomprensione: quello è spirito, materia vaga e inconsistente, non conta. Siamo diversi solo perché non mi ha allattato, è una legge della carne. È perché ci hanno separato, l’unica distanza comprensibile è quella fisica.

È la madre a pronunciare ciò che il figlio pensa. Ma qui Franchini compie una torsione crudele: la distanza non è spirituale, non è emotiva. È “perché non mi ha allattato”: una legge della carne, dice il narratore.

Questo passaggio rovescia completamente il concetto di “natura”: il figlio nega l’istinto, la vicinanza, il riconoscimento.


  1. Conclusioni


Angela Izzo è un personaggio che resta impresso non perché amabile, ma perché irripetibile. Antonio Franchini la costruisce con precisione brutale, usando strumenti narrativi mirati che ogni autore dovrebbe osservare da vicino:


  • Coerenza interna radicale: Angela è odio puro, e ogni gesto, ogni battuta, ogni ricordo converge su questa forza elementare. Nessuna contraddizione la redime, ma tutte la rendono credibile.


  • Metafore strutturali: il fuoco, la lava, l’eruzione diventano non solo immagini, ma architettura emotiva e narrativa. Il personaggio non cambia: si consuma.


  • Sguardo filtrato e personale: Franchini la scolpisce attraverso gli occhi del figlio, che la osserva con disprezzo, vergogna e lucidità. Il filtro è intimo, doloroso e imparziale, proprio per questo efficace.


  • Lingua viva e precisa: uso del dialetto, ritmo, paradossi, ossimori. L'autore sfrutta ogni risorsa del linguaggio per rafforzare la presenza sulla pagina.


  • Origine, storia, contesto: Angela non è un mostro astratto. È figlia della guerra, della fame, della provincia. Le sue radici giustificano senza scusare, rendono plausibile ciò che altrimenti sembrerebbe eccesso.


Angela Izzo è la prova che non serve un personaggio simpatico per scrivere un grande romanzo. Serve un personaggio vivo, complesso, inglobato nella lingua e nella visione di chi lo racconta.



Hai già la storia, ma i personaggi non prendono vita?

Ti aiuto a renderli indimenticabili.


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