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Veronica Raimo e l’ironia che scava: come si costruisce una voce ironica, tagliente, intelligente.

  • Immagine del redattore: Elisa Lucchesi
    Elisa Lucchesi
  • 7 giorni fa
  • Tempo di lettura: 7 min

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Veronica Raimo, Niente di vero - Einaudi, 176 pp.

Non so se in questo libro ci sia qualcosa di vero. Ma non importa.

Niente di vero è una raccolta di pillole taglienti e tenerissime: riflessioni sul corpo, la famiglia, le relazioni, l’infanzia che lascia sempre un’eco nell’adolescenza e nell’età adulta.

Una madre onnipresente, un padre ipocondriaco, parenti invadenti, dialoghi surreali, umiliazioni scolpite con ironia chirurgica.

Ci si riconosce in quella bambina un po’ sfigata, con gli scarponi in spiaggia e i capelli tagliati male. Tutti abbiamo avuto un parente invadente che ha commentato il nostro corpo, una madre e una nonna che ha chiamato tutto il vicinato al suono di un'ambulanza, un'amica del cuore da cui ci siamo allontanati, amori finiti male e altri pure peggio.


Veronica Raimo trasforma il disagio in voce, la goffaggine in intelligenza narrativa, il grottesco in immagini sagaci e divertenti.

Suggestione, autosuggestione. Dove sta la verità? Cos’è? È quello che è effettivamente successo o come lo raccontiamo? Ribaltare la lingua per ironizzare sulla realtà, sul vero? O forse no.

Chissà, quindi, se c’è qualcosa di Vero o di vero.

Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita, si dice. In realtà la famiglia se la caverà alla grande, come è sempre stato dall’alba dei tempi, mentre sarà lo scrittore a fare una brutta fine nel tentativo disperato di uccidere madri, padri e fratelli, per poi ritrovarseli inesorabilmente vivi. 

Così inizia Niente di vero.

Fin dal titolo, Raimo svela il gioco: raccontare sé stessi significa tradire, reinventare, esagerare.

Quel che distingue la sua voce è l’ironia: non un modo per attenuare la drammaticità, ma uno strumento per metterla a fuoco con più nitidezza.

E lo fa attraverso tecniche narrative raffinate, capaci di trasformare anche scene ordinarie, una tazzina da caffè, un momento di stitichezza, o un presunto morto in famiglia, in momenti di intensa verità.


Vediamo come Veronica Raimo tratta l'ironia.


1. Il proverbio ribaltato: manipolare la saggezza popolare


Raimo ama partire da un proverbio, da un’espressione idiomatica, da un modo di dire congelato, per poi ribaltarlo e svelarne il potenziale narrativo o comico.

Ho sempre trovato fallace il detto: «Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi»; nella mia esperienza le menzogne hanno l’intrinseca qualità di generare coerenza, nessi causali, inferenze. […] Questa è la mia teoria: basta lasciarlo lavorare in pace e il diavolo fa sia le pentole che i coperchi.

Il trucco è semplice e geniale: prendere alla lettera una frase fatta, usarla come spunto per una riflessione assurda ma coerente, e capovolgere la morale comune.

Il detto viene così privato della sua funzione rassicurante, e trasformato in un’arma di senso.


Lo stesso succede con:

Contrariamente al diavolo con le sue pentole, ho sempre preso alla lettera il detto: «Prova a metterti nei panni degli altri». Mi trovo bene in quei panni, apro armadi sconosciuti e mi infilo quello che c’è. Mi guardo allo specchio e mi riconosco.

Anche qui il detto viene preso alla lettera, e da invito morale diventa gioco narrativo.

Ironia significa anche riappropriarsi del linguaggio comune e riplasmarlo secondo una logica personale, spesso spiazzante.


2. Famiglia: melodramma quotidiano e comicità involontaria


L’altro grande campo d’azione è la famiglia. Non c’è bisogno di inventare: basta registrare fedelmente la voce materna, le manie, le scene domestiche.

Mio fratello muore tante volte al mese. È mia madre a chiamare per avvertirmi della dipartita.
– Tuo fratello non mi risponde al telefono, – dice in un sibilo.
Per lei il telefono certifica la nostra permanenza sulla Terra, in caso di mancata risposta non esistono altre spiegazioni che una cessata attività vitale.

Il comico nasce dalla sproporzione: non risponde al telefono = è morto.

Il contrasto tra la drammaticità della “morte” e il meccanismo quasi rituale di chiamare crea una comicità nera, capace di alleggerire l’angoscia senza negarla.

E non è solo ansia materna: è la costruzione di un piccolo teatro del dolore, dove si pretende partecipazione emotiva, anche senza motivo.

Quando mi chiama per dirmi che mio fratello non c’è piú, non vuole essere rassicurata, ci tiene piuttosto che partecipi al cordoglio. Patire insieme è la sua forma di felicità: mal comune, gaudio totale.

Anche qui: si parte dal cliché del “mal comune mezzo gaudio” e lo si spinge fino al paradosso: patire è felicità.

È un’ironia che nasce dallo sguardo laterale, che riesce a rendere surreale anche l’ordinario.


3. Corpi, seni, cisti: umiliazione + dettaglio = comicità tagliente


Uno dei temi più ricorrenti nel libro è il rapporto col corpo, e in particolare con la femminilità imperfetta, non conforme.

Il bersaglio principale è il seno, o meglio: l’assenza di seno.

Non solo ero stata una bambina esile e inappetente, ma mi apprestavo a diventare una ragazza spudoratamente senza seno. Mia nonna non vedeva l’ora di ripetermi il mantra imparato dal defunto marito: ‘Deve riempire almeno una coppa di champagne’. Al che mi schiaffava una tazzina da caffè contro il petto e scoppiava a ridere.

La scena è comica, ma lo è perché crudelmente vera: una nonna che trasforma il complesso corporeo della nipote in un numero da cabaret casalingo. E poco più avanti, quando la protagonista si opera per una cisti al seno, anche i medici entrano nello sketch:

Prima di entrare in sala operatoria, mio padre mi disinfettò con l’alcol dalla testa ai piedi. [...] L’ultima frase che sentii dietro la mascherina del medico fu: – Mi spiace, almeno ti faceva un po’ di volume…
Mi abbandonai al sonno visualizzando l’immagine di nonna Muccia che gli batteva il cinque.

L’umiliazione viene trasformata in scena: c’è la battuta finale del medico, il gesto rituale del padre, il cameo immaginario della nonna.

Il dolore non viene negato, ma messo in forma comica.

Ed è proprio questo il potere dell’ironia: rendere raccontabile ciò che altrimenti resterebbe solo fastidio, imbarazzo, trauma.


4. Elevare il basso: la solitudine sulla tazza del bagno


Qui Raimo mette in atto una delle sue strategie più efficaci: elevare il basso, rendere filosofica un’esperienza corporea, intima e imbarazzante.

I momenti più profondi di solitudine li ho vissuti sulla tazza del cesso.[...] È stato il mio apprendistato alla frustrazione. Chi non è mai stato stitico non può capire il tormento esasperante di quei lunghissimi minuti, il lento scivolare nella desolazione di un tempo vuoto, il desiderio della resa. Il fallimento non è la cosa peggiore, la cosa peggiore è l’indecisione, il bilico.
C’è una parte di te che non riesce a lasciarti, eppure non ti appartiene già più.

L’ironia nasce proprio dal contrasto tra il tono analitico, quasi metafisico, e la materia trattata: la stitichezza, l’attesa, la frustrazione fisiologica.

Non c’è intento comico in superficie, ma è il fuori luogo del registro a generare un effetto straniante e insieme rivelatore.

Una forma di comicità intelligente, spiazzante e stranamente vera.


5. L’infanzia come arte della noia


Il ricordo dell’infanzia è spesso il terreno in cui si misura l’autoironia più radicale.

Nel caso di Raimo, è un’infanzia blindata, iperprotetta, che diventa presto posa esistenziale:

Grazie alla ferrea educazione dei miei genitori, né io né mio fratello abbiamo mai imparato a fare quelle cose spericolate come nuotare, andare in bicicletta, pattinare, saltare alla corda [...] Abbiamo passato l’infanzia chiusi dentro casa a romperci le palle. Era un’attività talmente intensa che presto divenne una posa esistenziale.

È l’elogio paradossale della noia, dell’educazione alla paura.

Lo stile è secco, il tono sarcastico: c’è sempre un punto di contatto tra il lettore e l’esperienza narrata. La noia diventa “identità”, “compito”, e dunque racconto.


6. Autoderisione + gioco linguistico = autoritratto ironico


Infine, l’ironia si concentra sulla protagonista stessa. Nessuno viene risparmiato, nemmeno (anzi: soprattutto) chi scrive.

Fino a diciannove anni non sono mai andata a letto con nessuno. Anche se non è esattamente così, ma ci tornerò dopo. Tutti i miei innamoramenti si nutrivano di solido platonismo. Non a caso l’anagramma del mio nome è ‘Invocare amori’. Cioè, non viverli.

È l’arte della reticenza: dire una cosa, poi smontarla, poi rilanciarla con un gioco di parole.

L’anagramma diventa sintesi narrativa, perfetta per chi ha passato l’adolescenza a fantasticare e non a vivere.

È autoironia vera, perché non serve a schermarsi ma a esporsi ancora di più.


7. In conclusione


In Niente di vero, Veronica Raimo costruisce un’autonarrazione spiazzante e originale, fondata su una forma di ironia che non serve a stemperare il dolore, ma a mostrarlo con maggiore nitidezza.

La sua scrittura non cerca conferme, né empatia immediata. Sfrutta invece meccanismi precisi per trasformare l’esperienza soggettiva in racconto condivisibile, senza mai scivolare nella confessione sentimentale.


Queste le principali tecniche usate nel romanzo:


Ribaltamento dei modi di dire

Espressioni cristallizzate del linguaggio comune vengono prese alla lettera o forzate fino all’assurdo. L’effetto è spiazzante: ciò che dovrebbe avere funzione rassicurante si trasforma in paradosso, e diventa materia narrativa.


Quotidianità come teatro grottesco

I gesti ripetuti, le dinamiche familiari, i dialoghi domestici vengono osservati con uno sguardo laterale. L’assurdo emerge dal normale, non dal bizzarro. L’ironia nasce dallo scarto tra la banalità del fatto e la drammaticità con cui viene vissuto o raccontato.


Dettaglio corporeo come punto di attrito

Il corpo, soprattutto quello femminile, è trattato come spazio critico. Non viene idealizzato né patologizzato, ma messo in scena nei suoi piccoli fallimenti quotidiani. La narrazione si concentra sui margini, sulle imperfezioni, sugli attriti tra corpo vissuto e corpo percepito.


Elevazione del basso

Situazioni imbarazzanti, intime, triviali vengono descritte con tono analitico o filosofico. Il contrasto tra registro alto e contenuto basso genera un effetto straniante che apre una nuova profondità.


Infanzia come fondale esistenziale

L’infanzia non è ricordata con nostalgia, ma come un archivio di piccole repressioni, noie, goffaggini. Il passato viene trattato come un serbatoio di pose, tic, paure che si prolungano nell’età adulta senza soluzione di continuità.


Autoironia come controllo del discorso

La voce narrante si espone costantemente, ma non si concede. Usa la derisione non per sminuirsi, ma per guidare il racconto. È un’autonarrazione consapevole, che non chiede indulgenza né identificazione, ma mette in atto una forma sottile di potere: dominare il proprio stesso imbarazzo.


Niente di vero non pretende di dire la verità: mette in discussione la sua stessa possibilità.

Ma proprio in questo dubbio costante trova la sua forza letteraria.

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