Libri a coppie: chi si somiglia si piglia
- Elisa Lucchesi

- 23 lug
- Tempo di lettura: 6 min

Quante volte hai chiuso un libro e hai pensato: e adesso cosa leggo?
Non perché la tua TBR sia scarna, ma perché vorresti proprio quella stessa emozione.
Ed eccomi qua con Libri a coppie: chi si somiglia si piglia, romanzi che, per ragioni diverse, si richiamano, si specchiano, si rispondono. A volte sono legati da un’atmosfera, altre da un tema, un personaggio, un tono.
Se uno dei due ti ha fatto male (nel senso bello), l’altro potrebbe completare il colpo.
Case e oggetti: quando le stanze raccontano

Che cos'è una casa, se non il contenitore di una memoria? Un luogo in cui ogni oggetto può diventare un altoparlante del passato, un frammento di identità, un simbolo di ciò che eravamo, e forse ancora siamo.
La casa del mago (Ponte alle Grazie) di Emanuele Trevi e Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (Terrarossa edizioni) di Michele Ruol, esplorano proprio questo: la narrazione dell’assenza tramite ciò che rimane.
Entrambi mettono in scena una casa — una fisica, una in rovina — come spazio narrativo in cui ogni oggetto è un’epifania, ogni stanza un possibile capitolo. E parlano, in fondo, dello stesso enigma: come si sopravvive alla perdita? Come si traduce il dolore in racconto?
La casa del mago: abitare il passato, interrogare il padre
Alla morte del padre, Emanuele eredita lo studio-appartamento: una casa che nessuno vuole, un luogo carico di segni, simboli, residui emotivi.
Quella che potrebbe essere una normale operazione di sgombero si trasforma in un viaggio interiore e simbolico, in cui il figlio si fa archeologo dell’anima paterna. La casa diventa un museo, e Trevi lo dichiara apertamente:
«Una bizzarra congerie di oggetti di cui sono diventato il curatore e il custode, e di cui queste pagine sono una specie di catalogo ragionato.»
Ogni oggetto — la scrivania, la coperta infeltrita, la lucerna di terracotta, i mandala disegnati a mano — è una reliquia, ma anche un varco.
Il romanzo, che fonde memoir, saggio e affresco culturale, è una meditazione lirica sul rapporto padre-figlio e sul modo in cui le cose trattengono l’essenza di chi le ha abitate.
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia: la casa dopo la fine
Un inventario di oggetti, un ritratto dell’assenza.
Anche qui c’è una casa, ma non è abitata da fantasmi individuali: è un luogo in rovina, silenzioso, avvolto dalla foresta che lo reclama. Era la casa di una famiglia spezzata: Madre, Padre, Maggiore e Minore. Ma i figli non ci sono più, e ogni stanza racconta una perdita.
L’inventario di Ruol è un gesto rituale: ogni oggetto è descritto con precisione, come in un catalogo. Il Chrono Swatch, il PC, i boccali di birra. Oggetti reali, ma carichi di assenza, che tracciano i contorni di chi non c’è più.
Madre e Padre, rimasti soli, si muovono come estranei tra le rovine: lei si aggrappa agli oggetti, lui si ritira nel silenzio.
Come Trevi, anche Ruol costruisce una narrazione fatta di dettagli, ma qui la prospettiva è più corale. È il lutto ad avere la parola, attraverso le sue mille trasformazioni.
E alla fine, proprio come ne La casa del mago, anche qui l’oggetto diventa occasione di comprensione: non solo del passato, ma anche di una nuova possibilità di incontro. Una rinascita sottovoce, come i germogli che spuntano nel sottobosco.
Entrambi i libri traducono il silenzio in materia narrativa. Danno voce all’oggetto, non come nostalgia, ma come strumento di rivelazione.
E in entrambi, il lettore si trasforma in esploratore, in visitante di un museo dell’anima.
La casa del mago e Inventario ci ricordano che la memoria ha bisogno di luoghi.
Ogni oggetto narrato, in questi due romanzi, è un gesto di resistenza contro la dimenticanza.
Due viaggi all’inferno: Flash e Trainspotting

Flash e Trainspotting non raccontano semplicemente la droga. Raccontano la caduta.
Non la dipendenza come malattia, ma come scelta reiterata, come stile di vita, come (auto)condanna.
Due ambienti diversi, la Katmandu psichedelica degli anni ’70 e l’Edimburgo working class degli anni ’90, ma lo stesso buco nero al centro: il desiderio di annullarsi.
Droghe, viaggio, autodistruzione
In Flash, Charles Duchaussois racconta il viaggio come perdita di sé: dall’Europa all’Asia, dalla curiosità alla dipendenza, dalla ricerca alla rovina. Ogni tappa è una soglia oltre cui il corpo si decompone, la mente si sfalda, l’anima si svuota. L’eroina, l’LSD, l’oppio non sono metafore: sono strumenti reali e chimici dell’annientamento.
In Trainspotting, la droga è l’unica routine possibile per chi non ha futuro. L’eroina diventa rifugio, arma, religione. Renton e gli altri non cercano l’illuminazione: cercano di sopravvivere al vuoto.
Né Duchaussois né Welsh moralizzano. Raccontano. Mostrano corpi disfatti, vite spezzate, stanze luride, visioni deliranti.
In Flash, il disfacimento ha il ritmo lento di una discesa mistica che si trasforma in incubo.
In Trainspotting, è una valanga continua di overdose, furti, AIDS, botte, tentativi di disintossicazione che non portano mai a nulla.
Renton, Spud, Begbie, Sick Boy: ciascuno incarna una forma diversa di autodistruzione. Duchaussois è solo, ma attorno a lui si muove un’umanità altrettanto persa: larve, relitti, fantasmi occidentali in fuga da sé.
In entrambi i libri, chi resta fuori dai binari è destinato a marcire. La società osserva, giudica o ignora. Ma non salva.
Universi tossici: la comune e il pub
Katmandu è per Duchaussois una bolla fuori dal tempo, un’orgia di droghe e marciume travestita da utopia hippie. Non esistono orari, igiene, autorità: solo siringhe, malattie, allucinazioni, morte.
Welsh ambienta invece tutto nel quotidiano urbano: case popolari, pub, strade desolate, ospedali. Nessuna esotizzazione. Solo una realtà troppo vera per essere sopportata senza alterazioni chimiche.
Perché ci affascinano?
Perché sono storie estreme ma umane. Perché ci permettono di guardare nell’abisso senza caderci.
Perché Flash e Trainspotting mostrano che la droga non è solo un problema, ma una risposta. Sbagliata, devastante, ma comprensibile.
E perché sotto la sporcizia, l’orrore e la disfatta, restano sempre e comunque delle vite.
Due madri, due odi: Il fuoco che ti porti dentro e L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi

Chi ha letto Il fuoco che ti porti dentro difficilmente dimenticherà Angela Izzo. Una figura impossibile da addomesticare, un corpo narrativo che irrompe nella pagina, la occupa, la violenta, la trasforma.
Eppure, anche ne L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi troviamo una madre odiata, negata, mal sopportata.
Ma se nel romanzo di Franchini la madre è un vulcano che brucia e poi pietrifica, in quello di Tibuleac è una figura grigia, goffa, che lentamente (e tragicamente) si accende di umanità.
Due romanzi molto diversi, ma legati da una tensione comune: raccontare il legame madre-figlio partendo dal rifiuto, dall’assenza d’amore, dall’odio.
In entrambi i libri, l’amore è un’assenza
Aleksy odia sua madre perché gli ha negato ogni gesto di tenerezza, ogni conforto emotivo durante l’infanzia.
Angela, nel libro di Franchini, è invece una macchina di odio autosufficiente: non sa né ricevere né dare affetto, perché affetto non ne ha mai ricevuto.
Nel romanzo di Franchini, l’odio è struttura: Angela è figlia e madre di rancore: lo eredita da chi l’ha cresciuta e lo trasmette a sua volta: è una donna che esiste solo nel male, e nel male si perpetua.
Tibuleac, al contrario, lascia spazio alla trasformazione. Il suo romanzo si apre sul disprezzo e sul rifiuto, ma si muove verso una possibilità di ricostruzione, seppur amara, seppur tardiva.
Atmosfere: Napoli rovente contro la Francia sospesa
Il libro di Franchini è immerso in una Napoli verbosa, violenta, claustrofobica. La città resta sullo sfondo, ma si sente in ogni frase, nei dialoghi, nelle espressioni dialettali, nella volgarità orgogliosa e disarmante di Angela. È un libro caldo, afoso, pieno di odori forti, di parole che sporcano, di immagini che bruciano. Il mondo raccontato è saturo, carnale, eccessivo.
Tibuleac sceglie invece una cornice diversa: una casa isolata nel nord della Francia, immersa nel verde, nei silenzi, nei tramonti estivi. Il tempo sembra sospeso, il paesaggio rarefatto. Il romanzo è pervaso da un’atmosfera malinconica, come se ogni scena fosse già un ricordo.
Narrazioni opposte: corrosione vs trasformazione
Il fuoco che ti porti dentro è un memoir scritto con ferocia lucidissima. Il narratore, un figlio che non riesce nemmeno a chiamare "madre" la donna che lo ha generato, rifiuta non solo il legame affettivo, ma anche quello biologico. Non c’è margine per la nostalgia, né per la comprensione. L’odio è l’unico sentimento che unisce. E quando l’odio si estingue, resta solo la vergogna.
È una narrazione a senso unico: non c’è evoluzione.
Ne L'estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi, invece, tutto si muove verso una progressiva umanizzazione. Aleksy, costretto a passare l’estate con la madre malata, comincia lentamente a vederla. A notare la bellezza degli occhi, a riconoscere un gesto, a intuire un passato. Il tempo passato insieme non cancella l’assenza, ma la rilegge.
Due madri, due finali
Alla fine, ciò che più distingue i due romanzi è il destino che assegnano alla figura materna.
Angela Izzo, anche da vecchia, non cede. Resta chiusa in casa a rimasticare le scorie della sua esistenza, a compitare l’odio come una preghiera svuotata di senso ma mai abbandonata.
È lava fredda: la furia si è spenta, ma non ha lasciato spazio a nient’altro.
La madre di Aleksy, invece, proprio perché vicina alla fine, si lascia finalmente guardare. Non diventa migliore, non si trasforma in un’eroina. Ma smette di essere solo un nemico.
E questo basta, perché qualcosa nel figlio cambi.
Due modi di affrontare lo stesso nucleo tematico: l’ambivalenza del legame madre-figlio, il peso dell’origine, il dolore dell’eredità.



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